14 02 2004 - 14 02 2024

Vent’anni fa, più o meno alle 23 di una serata innamorata, l'Italia ed il mondo intero vennero a conoscenza che il Pirata non c'era più.

Sgomento, sconforto, rabbia. Marco Pantani era andato via dopo anni di insinuazioni, dubbi, difese e accuse.

Lui, che aveva (ri)avvicinato generazioni e generazioni, di italiani e non, a quel fantastico sport che era (si, era) il ciclismo. Quella disciplina che è sempre stata spartiacque per ogni evento importante di questa penisola.

Da Coppi a Bartali, da Moser e Saronni, da il Cannibale a Indurain. E altri ancora e ancora.
E poi arrivò lui. Esile, fragile, pallido. Piccolo uomo che doveva sfidare la forza della natura e della Montagna. Struggente solo a guardarlo. Aura innaturale che avvolgeva ogni cosa al suo passaggio. Le stigmate del fuoriclasse senza tempo.

Il mondo lo capì. Tutti lo capimmo. Chi era incollato davanti alle Tv in quei mesi che precedevano l'estate, e poi l'altro ad estate piena. Guardavamo la Storia e forse non lo sapevamo.

Marco Pantani è stato uno dei più grandi sportivi di ogni tempo. E, come tale, distrutto dalla sua stessa esistenza, alla costante ricerca di perfezione e felicità. Che non riusciva a prendere, non riusciva a vedere. Come quella volta che voleva abbandonare il ciclismo. Perché aveva capito, Genio quale era, che era un mondo sporco. Troppo. E uno come lui non avrebbe mai capito i motivi. Ma decise di sfidarli.

Sfidò il sistema, le scommesse, le malvagità. E lo fece a suon di pedalate, lì in alto dove le auto bruciano le frizioni per arrivare in cima. Perché era l'unico modo per poterlo fare. Un pó come fece il suo alter ego Diego Armando Maradona, nel calcio.

Lo distrussero. Fu vilipeso, offeso. Oltraggiato, umiliato.

E fu proprio quella umiliazione a Madonna di Campiglio che mise la pietra tombale sulla vita, non solo sportiva, di Pantani.

Il suo modo spirituale di intendere la bicicletta terminò in quel volto affranto all'uscita dell'hotel. Marco capì subito. Non ci furono altre interpretazioni.

Il ciclismo quel giorno morì. Uno sport glorioso reso cenere da qualcosa che mai potremmo raccontare. Tenuto nascosto nelle stanze buie e segrete di non si sa quale luogo.
Pantani ne fu il protagonista assoluto. Perché lui poteva reggerlo. Perché uno come Pantani nasce ogni 100 anni. Forse.

Che ad una intera generazione ha fatto capire come andare oltre gli ostacoli, come portare il cuore oltre la più umana fatica.

E poi il suo volto. Il suo volto abbassato, sudato, minuto. Come di uno che non parlava mai, non perché non avesse nulla da dire, ma perché quello che avrebbe detto era troppo più grande di tutti noi. Il suo volto. Lui, la bici. E la Montagna. La sua compagna di vita e di lotta, di battaglia e di sentimenti.

La Montagna che fu croce e delizia della sua breve ma straordinaria vita. La Montagna che ti guarda, che ti spezza, che ti rende fiero. La volontà infinita di spostare quella Montagna con la sola forza dei piedi schiacciati sui pedali.

Marco ebbe un privilegio enorme. Sacrificò la sua vita per la sua vita a due ruote. Il ciclismo. Perché quel ciclismo non piaceva a lui. E decise di mettere il punto definitivo.

Marco Pantani non godette dei suoi successi perché la sfida, costante, era solo con sé stesso e la Montagna. Per raggiungere quella benedetta, anzi maledetta, Cima.

Marco Pantani odiò sempre il successo che aveva, perché sapeva benissimo che quello stesso successo lo avrebbe abbandonato. E condannato. E ucciso.

E quella sera, in quell'hotel di Rimini, pieno di dubbi e di incertezze, racconta ancora oggi una sola verità: l'essere umano non riconosce il Genio quando il Genio è in vita. È tutto qui.

Grazie Marco per le cose che, senza saperlo, mi hai insegnato. E scusami se anche io, come tutti, nulla ho fatto quando hai avuto bisogno. Ho cercato il tuo perdono sulla tua tomba. E ho capito, leggendo tante dediche, che non hai rappresentato solo per me l'inarrivabile voglia di rivalsa. Grazie per sempre, amico mio. Perché sento di esserti stato amico. Nell'anima, almeno.