Capita che la sinuosa musicalità del suo incedere toscano languisca le vene e non la testa. Ed è spesso capitato che, nelle conferenze stampa, mai avare di esercizi stilistici raffinati, il tecnico del Napoli abbia disseminato qua e là mine passate quasi inosservate.

Quella di oggi è una conferenza psicanalitica. Non è il solito Spalletti. D'altronde, c'è un convitato di pietra, il signor Scudetto, che oramai ha preso una forma tale da non poter passare inosservato. E Spalletti, che ha spesso spostato il focus su campo e lavoro, oggi non può fare a meno di alzare gli occhiali da fabbro e voltarsi un po' indietro, ripensando al proprio percorso.

L'occasione di una domanda innocua è perfetta per rivendicare la propria lungimiranza nell'accettare il progetto che De Laurentiis gli sottomise già a febbraio del 2020, divenuto realtà nel maggio dello stesso anno.

Sì, perché ipotizzare che, due anni dopo la clamorosa débâcle gattusiana di Napoli-Verona, partita che resterà negli annali come paradigma della rimozione della realtà in ambito sportivo, quella stessa squadra, sfibrata e debole, trionfasse in un campionato dominato da agosto, tramortendo ogni avversario ed imponendosi come una delle più grandi squadre della storia del calcio italiano per rendimento, era da visionari.

E se si è bravi a celebrare la premonizione aureliana dell'estate scorsa, stesso discorso lo si deve a colui che, in barba agli stereotipi, ha saputo calarsi alla perfezione nell'ambiente napoletano riuscendo a cavarci una qualificazione Champions al primo anno (dopo due anni di seguito ad inseguirla vanamente), uno Scudetto leggendario e pure una storica qualificazione ai quarti di Champions (con addirittura il rammarico per gli esiti infausti).

«Ho detto ai miei figli che a Napoli sarei andato per vincere». E c'è riuscito, su tutta la linea. Non solo quella sportiva; è riuscito a coinvolgere una città diffidente nei suoi confronti - "er' megl' Gattuso!"- ed in quelli della squadra -"l'anno scorso ci hanno contestato un terzo posto". Ha creato plusvalore nella gestione dei calciatori a propria disposizione; non già quelli che sono arrivati, ma anche quelli che già c'erano e che con lui sono esplosi o rinati.

Ed infine è riuscito a porre fine, con un appello accorato in mondovisione, alla diatriba infruttuosa ed infantile tra Proprietà e Gruppi Ultras, portando su una frequenza comune le varie componenti della piazza come mai era stato negli ultimi trent'anni.

Spalletti, dunque, ha tanto da rivendicare. Meriterebbe sin d'ora una piazza intitolata.

E lui, questo, lo sa. Lo sa ed oggi lo ha lasciato finalmente intendere. Il lavoro svolto fin d'oggi, la costruzione di un esoscheletro azzurro capace di reggere le pressioni ad alto livello tenendo ben salde le mani sul volante e l'obiettivo puntato sono un patrimonio che resterà in ogni caso nel bagaglio di questa squadra.

Così, il tentennamento percepito nella risposta sul futuro, sembra riconducibile a ciò: alla bellezza di quanto progettato, alla fisiologica esigenza di godersi lo spettacolo dall'alto, alle riflessioni che, la teoria insegna, vanno fatte in tempi di piatta e non di burrasca.

Venne, vide, vinse. E se dovesse andar via, prima di beccarsi qualche pugnalata alle spalle, magari dagli stessi che ad un punto della matematica si riempiono la bocca di 'aprile mese nero di Spalletti' lo si capirebbe. La gloria imperitura gli sarebbe garantita, senza il rischio che ne sia intaccata l'immagine dalla cronica tendenza del nostro ambiente a scendere dal carro, per quanto addobbato a festa sia.