"Il razzismo è normale nella Liga, il campionato che una volta apparteneva a Ronaldinho, Ronaldo, Cristiano e Messi oggi appartiene ai razzisti". Queste le considerazioni espresse da Vinícius Júnior, attaccante del Real Madrid, dopo essere stato oggetto di attacchi razzisti da parte di alcuni tifosi del Valencia durante la partita che la squadra della capitale spagnola ha perso per 1-0 al Mestalla. Uno sfogo amaro, comprensibile, che giunge a seguito dell'ennesimo episodio deprecabile e deplorevole di un calcio che reitera certi degradanti cliché nei quali dimostra di rimanere incatenato.

Ma è vero che la Real Federación Española de Fútbol (RFEF) e la politica nazionale sono rimaste inerti dinanzi a cotanto scempio? A vedere le modalità della risposta e i tempi di reazione le cose non sono andate proprio così. Sette persone arrestate in due filoni di indagine legati ad altrettanti episodi. Il primo è quello valenciano da cui sono scaturiti tre fermi con l'accusa di “crimine d'odio”. Gli altri quattro arresti sono stati disposti a Madrid a seguito della macabra esposizione di un manichino impiccato che indossava la maglia della stella brasiliana. Episodio verificatosi nelle adiacenze del campo di allenamento dei Blancos, nel mese di gennaio. I fatti di domenica, evidentemente, hanno impresso un'accelerazione netta ad un'indagine che si stava muovendo sottotraccia, lontano dal clamore mediatico dei primi giorni.

La RFEF, dal canto suo, non è rimasta con le braccia conserte e ha fatto sapere tramite i suoi portavoce di aver presentato nove denunce alle autorità governative per fatti che hanno visto coinvolto Vinícius dall'ottobre 2021 a domenica scorsa e ha contestualmente chiesto la collaborazione dei tifosi nel processo di identificazione di coloro i quali si macchiano di abusi razziali sugli spalti.

Vinícius, che nella partita incriminata era stato espulso, si è visto revocare il provvedimento dalla Federcalcio spagnola che ha fatto valere una sorta di attenuante morale attivata in risposta ai beceri cori razzisti. Un provvedimento irrituale ma sensato. L'unica strada da percorrere poiché non è concepibile punire le vittime del razzismo. Chi va espulso, possibilmente senza possibilità di reintegro in un impianto sportivo, è il razzista. Alla fine del processo avviato dai vertici del calcio spagnolo, in ogni caso, si capiranno le entità delle pene.

La lepre spagnola e il bradipo italiano

Tutta questa solerzia, forse anche determinata da un mezzo incidente diplomatico che stava per nascere col governo brasiliano a far pressione, sorprende. E lo fa perché da queste parti - e giungiamo così in Italia - non siamo avvezzi a tanta risolutezza. E soprattutto non siamo normalizzati all’idea del non assistere al solito miserabile corollario di polemiche sbilenche che anticipa barricate verbali erette per minimizzare certi fatti. Ovviamente per un interesse utilitaristico che mastica ogni cosa, a partire dal buon senso. 

La mente corre a quanto accaduto a Romelu Lukaku a Torino, ai fatti di Bergamo con un Dušan Vlahović preso di mira in maniera reiterata e continuativa e a tanti altri episodi che potrebbero riempire un’antologia del malessere sociale. Un tomo pingue nella quantità e ributtante nei contenuti. Di quei deprecabili momenti resta la pantomima andata in scena nei giorni successivi. Ossia quelle reazioni smodate e le concatenate bassezze di certi tifosi che contestavano il gesto dell’attaccante dell’Inter e la sacrosanta revoca dell’ingiusto provvedimento disciplinare che l'avrebbe tenuto fuori nel match successivo.

Ma il male si accompagna sempre col peggio che s'è dispiegato nel balletto degli organi dirigenziali del pallone cisalpino che prima sanzionano la Sud con una chiusura di un turno e poi la riaprono con la condizionale invocando lo spirito collaborativo della società. Non è questa un'accusa alla Juventus e ai suoi tifosi, il caso serve come pièce à l’appui per rendere ancora una volta manifesto il meccanismo rumoroso di questa giostra che non diverte. Un sistema perverso figlio di quell’endemica testardaggine che mette il proprio orticello sterile al centro del mondo, dimentichi che esistono necessità ben più alte.

“La società ha aiutato ad individuare i colpevoli”. Come se questo potesse bastare per rieducare i primati che vomitano odio. La verità è che chi gestisce il calcio si accontenta di queste mosse elementari (ci mancherebbe che un club non offrisse il suo pieno supporto) per evitare provvedimenti necessari e ben più duri. Ma il business troppo spesso vince sulle regole. E si chiude un occhio. Talvolta pure due. Per non parlare di orecchie tappate e di labbra serrate in atteggiamenti omertosi che talvolta arrivano da chi ha il fischietto in bocca e si dimentica di refertare lo squallore circostante. Che è rumoroso, fastidioso, inaccettabile.

Il modello italiano destinato a replicarsi all'infinito

Si può sperare in una mutazione di questi andamenti ormai conclamati? Possiamo augurarci un guizzo etico da parte di chi gestisce le cose? Non illudiamoci. Il brodo di coltura è fetido come il percolato.  "Le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un'altra. L'Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che 'Opti Poba' è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così". Così parlò Carlo Tavecchio, dirigente calcistico, durante un'assemblea, alludendo ai giocatori stranieri. Era il 2014, non sembra essere cambiato nulla in nove anni.

Solo la politica potrebbe salvarci, quindi. “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani, oh colerosi terremotati con il sapone non vi siete mai lavati”. Così cantava Matteo Salvini sobillato da una folla di conterranei alticci ad una sottospecie di sagra di paese spacciata per raduno politico. Beh, nella vita si può cambiare (difficile), ma resta il fatto che quella persona sia diventata un ministro della repubblica e vicepremier. Per due volte. Speranze travolte da un camion a pieno carico, in discesa e con i freni rotti.

Forse viviamo in una congiuntura storico-politica sfavorevole nella quale riaffiorano ricordi non troppo rassicuranti. Forse servirà ancora del tempo. Forse non sarà trovata una soluzione finché non sarà introdotta una pedagogia sociale efficace e risoluta. Per ora non possiamo fare altro che denunciare, indignarci e gridare la nostra sacrosanta rabbia nel momento in cui certi fenomeni si ripropongono come acido rigurgito. La credibilità del sistema pallonaro italiano resta una chimera. Il calcio, specchio sociale lucidissimo, avrebbe mille esempi da seguire per salvare e per salvarsi. Se solo volesse farlo. Nessuna scelta fatta dall'uomo è valida in eterno, ma è piuttosto storicamente determinata. E nel nostro Paese, ahinoi, sembra che certi modi di procedere siano frutto di una politica perseguita con tenacia. Che poi sia quella storicamente critica ed eticamente scorretta sembra un dettaglio che importa a pochi.

La messa è finita, andate in pace.