Qualcuno salvi gli ultras del Napoli da se stessi
La debacle comunicativa del movimento ultras napoletano è inarrestabile. Un tempo all'avanguardia nel creare tendenze, oggi costretto a rincorrere slogan social posticci nel goffo tentativo di restare al passo e non cadere nell'anonimato.
Ogni striscione abusivamente affisso in città suona come un grido di disperazione di chi non è più capace a incidere, nel bene o nel male. Una generazione che ingrossa il petto sulla scia di un'eredità storica che appartiene a una Napoli che non esiste più. Sono lontani i tempi in cui il genio partenopeo produceva veri e propri pezzi di letteratura calcistica come è stato l'indimenticabile striscione dedicato a Giulietta.
L'incontinenza autoreferenziale fa danni. E quando non si sbagliano previsioni sulla campagna acquisti, si offende la dirigenza, e quando non si ostenta un furto d'auto, si gioisce per la morte di un leghista, guadagnandosi prime pagine nazionali e riuscendo nell'impresa di far riempire la bocca a personaggi che dovrebbero vivere con la testa sotto la sabbia per la vergogna.
Napoli, per quanto culturalmente decadente possa apparire, non merita di essere rappresentata da un movimento che si impone con l'arroganza di una diva del passato, che vive nell'illusione di riuscire a nascondere il tempo che avanza dietro una maschera fatta di silicone e ciglia finte, provocando imbarazzo in chi guarda.
Un egocentrismo che non ha ragione di esistere, che non è giustificato neanche dalla presenza in trasferta spacciata come un sacrificio. Sia ben chiaro: seguire la propria squadra è un privilegio. Il calcio non è un bene primario. Se vai in trasferta o al Maradona è per appagare una tua pulsione. Nessun atto eroico. Nessun comportamento socialmente utile che meriti una ricompensa morale. I napoletani sono ovunque in Italia e all'estero. Senza i 150/200 ultras si riempirebbero ugualmente i settori ospiti, magari in maniera civile, sportiva e appassionata. Certo mancherebbero i cori autoreferenziali, ma potremmo farcene una ragione.
Il punto di non ritorno
Neanche i risultati entusiasmanti del campo sono stati in grado di porre un freno a tale emorragia di contenuti. Anzi, più la squadra cresce in termini di credibilità e rango a livello europeo e nazionale, più le differenze con il suo tifo organizzato risultano marcate. Forse non è un caso.
L'era De Laurentiis è stata il punto di non ritorno. Uno schiaffo in pieno volto per chi viveva con il potere di spostare l'opinione pubblica in cambio della propria fetta di business. Ma mentre la società scala le vette tecniche ed economiche del calcio riesce anche nell'impresa di isolarsi dal vortice distruttivo della Napoli viziata e incapace di riconoscere come valore la cultura del lavoro. Non senza difficoltà.
La decadenza morale alla quale siamo obbligati ad assistere è insopportabile. Difficile farsene una ragione o isolare il fenomeno perché, a suon di copertura mediatica, riesce sempre a trovare il modo per invadere il rapporto intimo di rappresentanza che ogni singolo tifoso ha con i propri colori. Hai voglia a dissociarti. Cambia poco nella percezione di chi non vede l'ora di generalizzare.
All'attuale movimento è riuscito persino di riabilitare la controversa figura di Palumbella. È una forzatura, ovviamente. La sua gestione romantica era comunque oleata da un business invidiabile, il cui quartier generale di piazza Cavour faceva concorrenza ad Azzuro Service.
Difendo la città
Difendere la città dovrebbe avere un'accezione culturale e tradizionale, invece sembra essere una vocazione paramilitare. Come se Napoli fosse sotto minaccia d'assedio territoriale. Vi diamo una notizia: i tedeschi sono stati cacciati da tempo. Rilassatevi. Deponete le pezze e trovatevi un lavoro.
Come ultimo atto eversivo sarebbe consigliabile lo scioglimento delle varie sigle del tifo, magari annunciandolo tramite uno di quei volantini congiunti con i quali, ogni tot, viene tappezzata la città.
Chiuderemo sicuramente un occhio sullo stile linguistico che rende inconfondibili tali comunicati, un mix tra il discorso finale di William Wallace in Braveheart e quello di un verbale di assemblea di condominio, perché crediamo sia meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine.