Lo so, avrei potuto inaugurare questa rubrica con un’altra partita. Magari una vittoria. Perché, anche se i precedenti a casa dei nerazzurri sono molto sfavorevoli, negli ultimi tempi qualche bella soddisfazione ce la siamo levata.

Vado a memoria. Ricordo un 3 a 0 con Mazzarri in panchina: Campagnaro che la mette di potenza dopo che Handanovic respinge un rigore di Hamsik. Maggio che si beve Nagatomo e fa 2 a 0. Il capitano che la chiude in scioltezza. Oppure un 1 a 0 nel secondo anno di Sarri. Una superiorità imbarazzate, un dominio assoluto suggellato da Callejon che approfitta di una pisciata di Nagatomo. O la vittoria in semifinale nell’anno della vittoria in Coppa Italia, pochi giorni prima che il Covid si abbattesse sulle nostre vite. Una magia di Fabian Ruiz che ci spalanca le porte della finale.

E invece no.

Per questo primo amarcord ho scelto di condividere un ricordo doloroso. Perché sono tifoso del Napoli. E la sofferenza fa parte del mio Dna.
E allora eccoci. 16 dicembre 2020. Il mese più brutto della mia vita.
Ho il Covid da due settimane. L’ha beccato mia moglie al lavoro e l’ha passato a me e mio figlio Stefano. Forse anche al più piccolo. Non lo sappiamo con certezza perché non ha fatto il tampone.
Dolori alle gambe, febbre, tosse, assenza totale di gusto e olfatto. Barricati in casa con i suoceri che ci portano la spesa fuori la porta.
Ma questo è il meno.
Mia mamma sta morendo.
Il tumore al pancreas scoperto all’inizio di luglio la sta divorando. È appena uscita dall’ospedale e sta sempre peggio.
La mia paura più grande è che la situazione possa precipitare da un momento all’altro e che io non riesca a darle l’ultimo saluto. Spendo una cifra, faccio un tampone al giorno ma l’esito è sempre lo stesso: positivo.
Mi sento un leone in gabbia.
Trascorro il pomeriggio nel tentativo di parlare al telefono con lei ma è troppo stanca. Non ce la fa proprio. Vorrei piangere. Vorrei sfogare la rabbia, il dolore e la frustrazione.
Ma non mi esce neanche una lacrima.
E allora faccio come ho sempre fatto nella mia vita. Quando sto male mi attacco al Napoli come unica ancora di salvezza. Non lo so perché ma sento questa partita come se fosse una finale di Champions.
In classifica siamo messi benissimo. Secondi a tre punti dal Milan, a pari merito con l’Inter.
Una vera e propria sfida scudetto.
Veniamo da un periodo super positivo: quattro palloni alla Roma, quattro al Crotone, vittoria in rimonta contro la Samp trascinati da un super Lozano. In mezzo il passaggio del turno in Europa League.
Giochiamo bene. La squadra gira che è un piacere e Mertens, al centro dell’attacco, non sta facendo rimpiangere l’infortunato Osihmen.
A cinque minuti dal fischio d’inizio sono pervaso da ottime sensazioni. Mi dico che non è possibile, almeno loro me la devono regalare una gioia. Che ci deve pur essere una piccola compensazione in questo periodo di merda.
E invece pronti via si fa male Mertens. Al suo posto Petagnone, che comunque fa il suo onesto lavoro come pivot spalle alla porta. Il primo tempo è povero di emozioni. Le squadre si rispettano. Ma nella ripresa diventiamo padroni del campo: Lozano fa i fossi sulla fascia destra, Insigne disegna calcio, il centrocampo domina. Le occasioni migliori sono tutte azzurre ma ci imbattiamo in un Handanovic che para anche le mosche.
E poi, al minuto 75, in una delle pochissime sortite offensive dell’Inter, Ospina abbatte Darmian in area. Rigore. Nel silenzio di un San Siro senza spettatori Insigne insulta l’arbitro. Rosso diretto.
La rabbia mi sale per la spina dorsale come il mercurio nel termometro toccato dal calore.
E proprio quando Lukaku mette il pallone sul dischetto squilla il telefono.
Mamma.
“Tesoro mio, come stai?”.
Me lo chiede lei a me.
Dalla voce pare che si sia ripresa. La malattia è infida e bastarda. Ma ogni tanto concede una tregua.
“Bene”, farfuglio, mentre Lukaku spiazza Ospina e porta in vantaggio l’Inter.
“I bambini come stanno?”, chiede.
Ha voglia di parlare. Ma io non riesco a staccare gli occhi dallo schermo. Nonostante l’uomo in meno ci buttiamo avanti alla ricerca disperata del pareggio.
Nella vita si è portati a credere che ci sia sempre tempo. Ma la vita non ti avverte.
“Scusami mà, ti posso chiamare tra un quarto d’ora? Sta finendo la partita…”.
“Ah c’è la partita? Che sta facendo il Napoli?”
“Stiamo perdendo”.
“Vai, vai. Chiamami dopo. Non ti preoccupare”, mi dice. Non è tifosa ma conosce meglio di chiunque altro il mio grado di ossessione.
Seguo gli ultimi minuti in uno stato di trance. Produciamo palle gol in serie ma Handanovic fa la partita della vita. Allo scadere un tiro ravvicinato di Petagna si stampa sul palo.
Finisce 1 a 0.
Sfogo la mia rabbia prendendo a pugni il divano. Scrivo su facebook, sul gruppo del fantacalcio, in quello degli amici malati azzurri come me.
Ne ho per tutti: l’arbitro, Insigne, i gol mangiati, Handanovic che caccia la scienza, il culo di Conte.
Poi, quando ho sfogato, richiamo mamma.
“Si è addormentata di nuovo. È molto, molto provata”, mi dicono da casa.
Rimetto gli highlights della partita.
E a quel punto, finalmente, scendono le lacrime.
Piango per l’ennesima occasione buttata nel cesso e perché non vinceremo mai niente.
Perché in fondo il tifo è anche questo.
Incazzarsi per il Napoli per non pensare che la tua vita fa schifo.