È bastata una sconfitta, l’ininfluente passo falso di Monza, dopo giorni di bagordi e la città ancora agghindata a festa, perché il seme della contestazione sia tornato a solleticare le coscienze di parte della tifoseria. Siamo tutti concordi col fatto che il campionato vada comunque onorato e che si debba scendere in campo sempre alla ricerca della vittoria, ma dopo una stagione che ci ha visti in testa dalle primissime giornate ed un successo ottenuto in pompa magna con settimane di anticipo, ipotizzare un calo fisiologico delle performance risultava oltremodo scontato. Con la squadra ormai scarica di quelle energie nervose indispensabili per mantenere un alto livello prestazionale.

Fa male dover constatare come questo malumore non colga impreparati, sorpresi, chi negli anni ha imparato a conoscere la città, chi ha l’orecchio per cogliere il sordo rumoreggiare che accompagna la squadra a prescindere dagli egregi risultati. Una sorta di fastidio soppresso per un’intera stagione, dopo aver passato un’estate a rimpiangere i partenti, ad auspicare un nefasto futuro per la squadra azzurra e che non attendeva altro per tornare a manifestare il proprio dissenso.

Lo stesso Spalletti si è tolto più di un sassolino durante la stagione, ricordando ad ogni occasione quello che gli era stato consegnato l’anno prima, come la squadra fosse stata addirittura oggetto di un lancio di uova, per aver interrotto precocemente la lotta scudetto a vantaggio delle milanesi. Che sia forse questa una delle ragioni che fa dubitare il mister sulla sua permanenza a Napoli? Un allenatore del suo spessore, con la sua etica del lavoro, non ha bisogno di rassicurazioni tecniche da parte della società, perché è sempre stato abituato a plasmare la materia che gli è stata messa a disposizione. Allo stesso tempo però ci troviamo di fronte ad un uomo che non le manda a dire, che non pretende di riscuotere il credito accumulato nei confronti della piazza, ma che esige rispetto per i suoi ragazzi, il suo gruppo di lavoro e per sé stesso.

Perché se coloro che avevano fomentato gli animi durante i caldi giorni del mercato, se i promotori del movimento A16, hanno fatto perdere le loro tracce, fino a mescolarsi alla folla festante nel segno dello scurdammoce ‘o passato, pretendendo di essere riabilitati agli occhi della pubblica piazza; troviamo alquanto inopportuno ritornare a puntare il dito solo perché, forse, questo scudetto non sarà accompagnato anche dal record di punti.

In una recente intervista, Vincenzo Montella, bomber protagonista dell’ultimo scudetto giallorosso conquistato nel 2001, e Fabio Capello, suo allenatore in quegli anni, hanno dichiarato che il pericolo per la squadra azzurra sia quello vissuto da loro a Roma e cioè di una città che prolunga i festeggiamenti per il tricolore fino alla prossima stagione. Evidentemente non sanno come funzionano le cose alle nostre latitudini, con l’esigentissima piazza partenopea che crede di vantare un credito, per chissà quale oscura ragione, con questa società e la pretesa, c’è da scommetterci, di veder bissare il successo l’anno prossimo; per non ascrivere il terzo agognato titolo alla mera casualità. Insomma, più che il troppo festeggiare, la malsana ossessione di ritornare a farlo il prima possibile.

Un credito che non viene concesso alla società nonostante negli anni, a dispetto delle griglie di inizio stagione, si sia sempre lottato ad alti livelli, scoprendo (grazie all’inchiesta Prisma) come in alcuni casi il successo sia stato rimandato per vicende estranee a fattori tecnici e di campo. Perché proprio chi oggi contesta il 2-0 di Monza, attribuendolo alla mancanza di mentalità da big, dovrebbe comprendere di essere pregno di quel provincialismo che tanto osteggia.

La società negli anni, mattone dopo mattone e partendo da solide fondamenta, ha costruito una squadra di primissimo ordine. E non ci riferiamo solo a chi la domenica si allaccia gli scarpini e scende in campo, ma parliamo di tutti i protagonisti dell’ascesa azzurra fino alle porte del gotha calcistico. Staff medico, management, scouting, fino ad arrivare agli impiegati e ai magazzinieri, hanno dimostrato che questo successo è frutto di una programmazione nel lavoro e della competenza.

Il prossimo passo resta quello della consapevolezza, consapevolezza intesa come prendere coscienza che nello sport non sempre si può vincere e che le sconfitte non vanno vissute come un fallimento, ma restano la base sulla quale costruire i trionfi futuri. Uno step che la società ha già fatto nel momento in cui ha saputo tenere la barra dritta nonostante le critiche, a volte feroci, di chi credeva di essere in possesso della ricetta per il successo. L’apertura di un ciclo di vittorie passa anche dai nostri comportamenti, dalla capacità di sgravare il Napoli da inutili pressioni, dall’attitudine verso un pensiero che sia critico e non distruttivo, dal riconoscere un valore verso il dubbio rispetto a fragili certezze. Impegniamoci quindi affinché il nostro amore non diventi quella barriera, quel limite, che tentiamo di superare e diamo fiducia ad una società che lavora ogni giorno per spingerci oltre.