È stato il tormentone dell’estate. Spalletti che lascia il Napoli scudettato, per dedicarsi alla campagna, agli stivali, agli affetti familiari; staccare la spina da una quotidianità di lavoro ossessivo, da un biennio dedicato al solo campo. E poi, richiamato dal canto di una sirena inseguita da tutta una vita, accasarsi a meno di due mesi dall’addio con la Nazionale.

S’era parlato di anno sabbatico. La soluzione ipotizzata da De Laurentiis per tenere in naftalina l’allenatore dello scudetto e non vederlo guidare squadre rivali; questione di clausole. E di narrazione, unificante e autoassolutoria, direbbe qualcuno che non riesce a non farsi domande un po’ meno superficiali (del tipo, si poteva evitare?).

Sta di fatto che l’anno sabbatico, alla fine, ce lo siamo presi proprio noi. Se l’è preso proprio il Napoli, il suo Presidente, la sua squadra.

Dell’improvvisazione percepita sull’estate napoletana, s’è scritto: s’è fatto poco, male e tardi. E si sono perse, se vogliamo, tutte le battaglie ideologiche che il club s’era cercato per costruire l’immagine di una società che vive a volontà propria.

La realtà s’è incaricata presto di smentire auspici fin troppo favorevoli; il campo, in uno spaccato iniziale di stagione sconcertante tanto in senso relativo – rispetto cioè all’ultima stagione – quanto in quello assoluto – i secondi tempi di Lazio e Braga ed i primi 70’ di Marassi sono orrifici a qualsiasi latitudine, ci ha consegnato l’immagine di un Napoli svuotato.

Farò inorridire i pragmatici, sono certo: ma se mi chiedete cosa manchi di più a questo Napoli, io vi rispondo con un concetto semplice. Manca una missione.

Manca cioè un’idea che, condivisa dallo spogliatoio in ogni sua componente, si prenda le corde di tutti e li spinga ad inseguirla costi quel che costi. Al Napoli manca qualcosa in cui credere.

Ed è lapalissiano che questo si rifletta sul rendimento; se siamo giunti a esaltare prestazioni per il solo equilibrio mostrato, per la compattezza e la tenuta del campo, significa che, dunque, la situazione è grave. Ma non è seria, per citare Flaiano.

Almeno non seria al punto da dover cambiare in corso d’opera la guida tecnica; forse, nemmeno tale da far intervenire la società di fronte alle costanti delegittimazioni cui è sottoposta praticamente ad ogni partita da parte dei suoi calciatori.

A giudicare da quanto emerso, la stagione del dopo Scudetto si sta dirigendo triste e solitaria nel dimenticatoio della memoria; un anno che poteva essere di consolidamento e che sinistramente somiglia a una transizione in cui tante, troppe, sarebbero le cose da cambiare, gli equivoci da scogliere, le questioni da affrontare.

L’evolversi degli eventi, si sa, può cambiare il corso; a patto che, nelle ceneri di questo fuoco lento che arde nel sottobosco di Castel Volturno, emerga uno straccio di idea, anche utilitaristica, capace di riportare a casa il vero protagonista dello scorso anno: l’entusiasmo.