Il primo non si scorda mai. E il terzo, l’ultimo, resterà per sempre scolpito nei nostri cuori.

Ma lo scudetto più emozionante, quello che ha generato le sensazioni più intense, la scarica d’adrenalina più forte, è stato senza alcun dubbio il secondo.

Il campionato 1989/90 fu indimenticabile. Nelle prime quattro partite il Napoli fu costretto a rinunciare a Maradona. Diego era stanco, oppresso e soffocato da un affetto asfissiante che gli rendeva la vita impossibile. Era infuriato con Ferlaino, che si era rimangiato la promessa di venderlo al Marsiglia dopo la conquista della Coppa Uefa.

Si presentò al San Paolo alla quinta di campionato, sfida contro la Fiorentina. Barbone incolto sul viso, un’aria scontenta, partì dalla panchina. Nel primo tempo fu un altro 10 a prendersi la scena: Roberto Baggio. Realizzò una doppietta. Il secondo gol fu una prodezza. Partì da centrocampo, dribblò mezza squadra, portiere compreso e segnò a porta vuota. Ci alzammo tutti in piedi ad applaudire.

Maradona entrò nel secondo tempo. Non sembrava particolarmente in forma. Due minuti dopo il suo ingresso fu assegnato un rigore agli azzurri. Diego calciò in modo fiacco e senza forza. Il portiere parò senza problemi. Ma uno stupido errore non avrebbe mai potuto incrinare il rapporto tra Diego e la sua gente. Si alzò un coro fortissimo. Prima dalle curve, poi tutto lo stadio: Diego! Diego! Diego!

Fu come un elettroshock

Maradona guardò negli occhi i suoi compagni e disse: tranquilli, la vinciamo!

E così fu.

3 a 2. Una rimonta pazzesca.

L’avversario per il titolo era il Milan di Sacchi e dei tre olandesi Rijkaard, Gullit e van Basten. Una squadra fortissima che, grazie alle innovazioni del suo mister, stava rivoluzionando il modo di intendere il calcio.

Fu un testa a testa appassionante e senza esclusioni di colpi. 

In primavera fioccarono le polemiche: il Napoli pareggiò a Bergamo con l’Atalanta. 0 a 0. A pochi minuti dalla fine Alemaofu colpito da una monetina lanciata dagli spalti e il giudice sportivo decretò la vittoria a tavolino. Nella stessa giornata il Milan giocava a Bologna. I rossoblu segnarono con Marronaro, la palla superò la linea di porta di mezzo metro ma l’arbitro non vide e finì in pareggio. Si arrivò alla penultima giornata a pari punti.

Tutti, ma proprio tutti, credevano che il logico epilogo fosse lo spareggio.

Il 22 aprile 1990 il Napoli era di scena a Bologna. Avevo tredici anni ed il San Paolo era la mia seconda casa già da tempo. Gli amici di papà si organizzarono per andare in trasferta. Avrei voluto andarci anche io, ma mio padre si oppose. Era un’epoca senza le pay tv. Niente Sky, niente Dazn, niente pezzotto. La radiolina unica fedele amica per conoscere quello che succedeva in campo. Fu l’inconfondibile voce roca di Sandro Ciotti a farmi sobbalzare dal divano. In 15 minuti il Napoli archiviò la pratica. Un gol da fuoriclasse di Careca, uno slalom di Maradona con diagonale preciso nell’angolino, terzo gol di Francini con assist magico, di tacco, ancora del 9.

Il Milan giocava a Verona. La fatal Verona, che già nel 1973 gli era costato uno scudetto che sembrava già cucito sul petto.

Non nutrivo grandi aspettative. Quel Milan era una macchina perfetta. La notizia del vantaggio rossonero, gol di Marco Simone, era una logica conseguenza della disparità dei valori in campo.

I giochi sembravano fatti

Ancora una giornata e sarebbe stato spareggio. Avevo il cuore a mille al solo pensiero.

Eravamo così certi dell’esito di quegli incontri che papà mi riaccompagnò a casa di mamma a fine primo tempo.

Via Epomeo era deserta. Balle di fieno stile vecchio West rotolavano per le strade vuote. Tutto il calcio minuto per minuto a fare da colonna sonora ad un intero quartiere.

Poi Enrico Ameri intervenne da Verona: “Sotomajor! Il Verona ha pareggiato. Grande colpo di testa del difensore”.

Ci fu un boato tremendo. Rumori di pentole, trombette, urla furibonde.

Non ci potevo credere. Stava succedendo davvero.

Presi il telefono e chiamai il mio amico Alessandro. Volevo condividere con lui la mia gioia. Occupato. Sempre occupato.

Nel frattempo il Bologna accorciò le distanze ma, subito dopo, Alemao ripristinò le tre reti di vantaggio con un contropiede fulmineo.

Io me ne stavo attaccato al vecchio telefono fisso. Dopo una decina di tentativi a vuoto decisi di scendere. Alessandro abitava a duecento metri da me. Facevo prima ad andare a casa sua.

Scesi al volo, divorando le scale. Saltai i gradini come una cavalletta. In giro non c’era un’anima. Solo un signore, di circa sessant’anni, capelli brizzolati, occhiali come due fondi di bottiglia, che camminava mezzo zoppo con la radiolina attaccata alle orecchie. 

A un certo punto si fermò. Non dimenticherò mai la sua espressione. Stupore, meraviglia, eccitazione. Gridò in maniera disumana e lanciò la radiolina come se fosse un giavellotto. Si disintegrò al suolo in mille pezzi. Poi si inginocchiò a terra e cominciò a piangere di gioia. 

“Amm vinciut o scudett! Amm vinciut o scudett!”, ripeteva incredulo. 

Un secondo dopo, come una coreografia precedentemente concordata, si affacciarono tutti dai balconi. Altre urla, altre trombette, altre pentole che sbattevano. Il Verona era passato in vantaggio.

Pallonetto di Pellegrini

E così, mentre il Milan perdeva la testa restando in 9 per le espulsioni di Van Basten e Costacurta e il Bologna segnava l’inutile gol del 2 a 4, io cominciai a correre come un novello Forrest Gump.

Forte, sempre più forte, le ali ai piedi, la voglia di abbracciare chiunque avessi incontrato

E all’improvviso vidi Alessandro, una sciarpa del Napoli legata in fronte tipo Rambo, la faccia deformata dall’adrenalina, che correva nella mia direzione.

Stava venendo da me. Aveva avuto la stessa idea. 

Mi strinse in un abbraccio soffocante e cominciò a piangere anche lui.

In un niente le strade si riempirono di gente.

Un’esultanza folle, improvvisa, rabbiosa. Sciarpe, bandiere, azzurro ovunque.

Seguii in gruppetto di persone che aveva in mente una meta precisa. Il portiere del palazzo di Alessandro era un accanito tifoso del Milan. Nella guardiola troneggiavano i poster di Sacchi, Berlusconi e dei tre olandesi.

Si formò un capannello di gente che cominciò a intonare il coro “Chi non salta rossonero è”.

Dopo dieci minuti di delirio uscì la moglie, a chiedere se gentilmente potevamo abbassare la voce.

Suo marito aveva mal di testa. Poverino.

La matematica certezza del secondo scudetto arrivò la settimana dopo. 1 a 0 alla Lazio, gol di testa di Baroni. Ma sapevamo tutti che era una mera formalità. 

Nessuna incertezza. Nessuna farfalla nello stomaco.

Nel mio cuore so che quello scudetto lo vincemmo il pomeriggio del 22 aprile.

Avevo 13 anni. Avevo giù visto due scudetti e una Coppa Uefa. Nella mia squadra giocava il più forte della storia.

Ero sicuro che mi attendessero anni e anni di trionfi.

Non potevo certo immaginare che per provare una gioia simile avrei dovuto aspettarne 33, di anni.