Una delle paure più grandi della mia vita era che mio figlio potesse essere juventino.

Avrei accettato con più sollievo anche un totale disinteresse per il calcio. Ma juventino proprio no.

Per ovviare a quella che, ai miei occhi, sarebbe stata una tragedia ho adottato una serie di stratagemmi di cui vado molto fiero: dopo mamma e papà, la terza parola che ha imparato è stata Juve cacca. Anche da più grande, queste due parole vengono pronunciate sempre in coppia, in ogni occasione.

A casa mia non esistono mostri o uomini neri, solo juventini nascosti dietro l’armadio pronti a rubare i giocattoli. Juventino è sinonimo di imbroglione, truffatore, furfante, persona che vuole vincere ad ogni costo infischiandosene delle regole.

“Non fare lo juventino”, è l’offesa peggiore del mondo, quella che fa più male.

Quando durante le interminabili partitelle nel corridoio mio figlio si butta a terra simulando falli inesistenti, lo sbeffeggio dandogli del Cuadrado o del Dybala.

“Alzati juventino!”, gli intimo ferendolo nell’orgoglio più profondo.

Alla fine credo di aver fatto un buon lavoro. È stato proprio lui a trasmettere al fratello più piccolo i sani valori di un’educazione anti juventina.

Mia moglie si incazza con me dicendo che sono eccessivo. Il fatto è che ho le mie buone ragioni. So cosa vuol dire avere un figlio juventino.

Lo so perché quel figlio ero io.

Fermi, per piacere, continuate a leggere. Per ogni cosa c’è una spiegazione.

I miei genitori hanno divorziato che ero molto piccolo. Sono cresciuto a casa dei miei nonni materni. Mio nonno non era un grande appassionato di calcio. Giocava la schedina, seguiva i risultati, ma non era tifoso.

In uno dei tanti pomeriggi trascorsi davanti alla televisione mi imbattei in una partita. Era il calcio di 90 minuto e della replica del secondo tempo del match più importante della giornata.

In quell’occasione un Juve – Roma.

Me ne stavo distratto a smontare e rimontare il mio Mazinga Zeta quando la mia attenzione si focalizzò sullo schermo. Una punizione magistrale del numero 10 bianconero: Michel Platini.

Fu una folgorazione.

Se avessi una macchina del tempo tornerei esattamente in quel preciso istante e, infischiandomene dei paradossi spazi temporali, avvertirei me stesso bambino della cazzata che stava per fare.

Ma Ritorno al Futuro, purtroppo, è solo un film.

Così, senza che nessuno mi avvertisse delle conseguenze, decisi di diventare tifoso della Juve.

Ebbene sì: abbracciai il lato oscuro della forza.

Mio padre non la prese bene. All’inizio credeva fosse la classica infatuazione destinata a spegnersi presto. Per rimediare mi portò allo stadio. Ma quel Napoli era scarso e non accese la mia fantasia. Invece ero pazzo del mio idolo. Erano gli anni della fortissima Juve di Trapattoni, con campioni del calibro di Zoff, Scirea, Cabrini, Tardelli, Rossi e Boniek.

Essere juventino mi piaceva. Ero un vincente e soprattutto fuori dal coro. Una caratteristica che mi contraddistingueva.

Papà però non mollava.

A lui, tifosissimo azzurro, proprio non andava giù di avere un figlio juventino.

Adottò la terapia d’urto: abbonamento allo stadio. Il rito era sempre lo stesso: mangiavamo a mezzogiorno la pasta al forno dai suoi vicini di casa, poi prendevamo la macchina e parcheggiavamo alla Loggetta. Appuntamento al bar con altri due amici suoi. Loro prendevano il caffè e io una Coca Cola. Poi ci mettevamo in cammino: direzione Distinti. Sedevamo sempre nello stesso settore. Spostati verso la Curva B, all’altezza del dischetto di rigore. E la cosa meravigliosa era che, vicino a noi, c’erano sempre le stesse persone. Sembrava di stare in famiglia. Una famiglia in cui tutti si preoccupano delle stesse persone e sperano nelle stesse cose.

Ma io, stoico, resistevo strenuamente. Sguardo al campo e orecchie attaccate alla radiolina. Ad esultare, tra le occhiatacce di molti, per le prodezze di Platini.

Fino a che non arrivò l’uomo che fece vacillare le mie idee: Diego Armando Maradona.

Lui.

Chi altro?

Le sue magie mi conquistarono subito. Era impossibile non innamorarsi. Era impossibile non sentirsi coinvolti dagli spalti gremitissimi, dal tifo incessante, dai cori, dalle coreografie, da quella squadra che macinava gioco e risultati.

Piano piano, col tempo, quello che prima mi rendeva fiero, la mia unicità, la mia caratteristica di “diverso”, cominciava a pesarmi terribilmente.

La felicità è reale solo se condivisa, diceva Tolstoj.

E io desideravo condividere la felicità con quelli che consideravo ormai la mia famiglia.

Per un po’ ho bluffato. Andavo dicendo in giro che il Napoli era la mia seconda squadra. Ma non ci credevo neanche io. Dentro di me c’era una guerra. La testa diceva Juve. Il cuore Napoli.

Quando poi Platini diede l’addio al calcio compresi che basta, era arrivato il momento: dovevo darci un taglio netto.

Mi serviva solo un pretesto.

Arrivò alla vigilia di un Sampdoria – Napoli.

Il mio amico Alessandro non perdeva occasione per sfottermi: “O Juventino ciucciapiselli di tutta quanta la famiglia Agnelli, oh Juve merda, juve, juve…”.

“Oh, Ale senti una cosa…”.

“Il lunedì, che umiliazioneeeee, tornare in fabbrica al servizio del padroneeee”.

“Oh, ti devo dire una cosa”.

“Cosa? Oh juventino, tu non parlare, che nella vita sai solo rubareeeee”.

“Oh! E bast! La facciamo una scommessa?”

“Che scommessa?”

“Se il Napoli vince domani cambio squadra. Tifo Napoli”.

Smise di cantare. Diventò improvvisamente serio.

“Lo prometti? Lo giuri?”

“Lo giuro”.

Lo dissi anche a mio padre.

Quella partita non la vedemmo. La ascoltammo alla radio, nella sua casa a Via San Giacomo dei Capri.

Fu la voce di Sandro Ciotti a segnare lo sliding doors della mia vita.

“Scusa Ameri, ti interrompo da Marassi. Maradona ha portato in vantaggio il Napoli”.

https://youtu.be/Vw330I_DGwU
Sampdoria Napoli 87/88

Una delle sue magie più belle. Di punta, nel fango, a tre minuti dalla fine. Una traiettoria impossibile da decifrare per il portiere.

Mio padre mi guardò.

“Quindi è vero? Ora tifi Napoli?”

“Ehm…si”.

“Festeggiamo”.

Aprì una bottiglia di champagne per l’occasione. Mi riempì mezzo bicchiere. Il primo della mia vita.

Credevo che mi attendessero anni e anni di successi.

Non è stato così.

Ma sono felice di aver preso quella decisione.

Sono felice di aver scelto i miei colori, la mia città, la mia terra.

Sono passati 35 anni ma ogni volta che il calendario propone Sampdoria – Napoli ricordo quel giorno.

Il giorno in cui ho abbandonato il lato oscuro della forza.

Il giorno in cui mi sono liberato dal male.

Il giorno in cui sono guarito.


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