Quanti ragazzini diventano tifosi delle squadre di maggior blasone? Centinaia, forse migliaia. Il motivo è molto semplice: un club che vince attira un maggior coinvolgimento nel seguirla. In passato era molto di voga tramandare la fede calcistica di generazione in generazione: da padre a figlio. E che si trattasse della squadra di appartenenza al proprio territorio poco importava, l’Inter di Suarez e Mazzola, il Milan di Gianni Rivera, la Juventus di Platini e Paolo Rossi recavano fascino e interesse molto facilmente, inoltre - ma aggiungerei soprattutto - si faceva molta meno fatica a raggiungere obiettivi di prim’ordine e poter festeggiare, senza troppe ansie e paura, i propri idoli calcistici. Era molto difficile trovare un bambino che si sgasasse vicino alla radiolina ansimando per le performance di Gianni De Rosa o di Claudio Pellegrini, perché i succitati campioni ti regalavano di sognare senza dannarsi l’anima più di tanto. D’altronde lottare sul filo del rasoio - ogni benedetto anno - non era indicativo per tutti e a Napoli, si sa, ‘a salute e a primm’a’ cosa.

‘A creature che non ti aspetti

Mio nipote ha iniziato a conoscere il calcio nell’era post calciopoli, quando l’Inter di Mancini spadroneggiava in serie A lasciando le briciole alle inseguitrici tra cui, come degna competitor, c’era la Roma di Luciano Spalletti. Anche per lui il percorso era segnato. Limpido, lineare. Da appassionato fan di Bobo Vieri ad un Inter pregna di talenti che dettava legge in Italia il passo è stato consequenziale, quasi fisiologico e semplice da eseguire.

Era un giorno di fine agosto, quando ormai la villeggiatura volgeva verso la fine, il ritorno verso casa e i parchi delle abitazioni ricominciavano a gremirsi di giovani adolescenti che, in attesa dell’inizio del campionato, riprendevano possesso dei propri completini da calcio e con enfasi e fervore si accingevano ad emulare le gesta dei propri beniamini. Tra i tanti spiccava un numero 7 di colore azzurro, impossibile confonderne l’identità perché, rispetto ai miei tempi, le maglie dei calciatori dell’era moderna c’è su scritto il nome del calciatore. Non c’era possibilità di confondersi, la scritta con su il nome di Lavezzi la diceva tutta, ma non era questo a meravigliarmi, l’argentino era già da un anno qui a Napoli e il suo brand già iniziava a spopolare tra i suoi accoliti, il mio stupore era dovuto al fatto che quella maglia fosse indossata da mio nipote. Sì, potrebbe risultare facile pensare che quello a scriccioletto di 11 anni fosse stato condizionato dal papà e dal sottoscritto nel cambiare squadra e far contenti i propri affetti, ma la realtà dei fatti era tutt’altra: “Zio, ma che sfizio c’è nel tifare una squadra che come l’Inter vince sempre? Il Napoli adesso è la mia squadra e io mi batterò per lei”.

Un esordio da Star

Cosa si può rispondere ad una frase del genere detta da un fanciullo di così tenera età? Oltre a rimanere spiazzato ed incredulo a cotanta saggezza ne fui ovviamente entusiasta, da quel momento in poi è stato un unico e solo crescendo, un legame che lui stesso ha reso sempre più saldo e indissolubile.

La mia gratificazione, nonché soddisfazione, è stata quella di portarlo allo stadio per la prima volta, non per una partita qualsiasi, quelle semplici - magari meno confusionarie, indicate per l’esordio di un adolescente - macché, tutt’altro, bensì una roboante, impegnatissima e delicatissima Napoli-Manchester City. Un settore qualsiasi? No, in curva, serata per la quale mia sorella ancora mi maledice.

I dati di quel match riportarono 55 mila spettatori all’allora arena di Fuorigrotta San Paolo, ma posso assicurarvi che il numero dei presenti apparivano almeno il doppio: io con un ragazzino di un metro e poco più con un sediolino da condividere con un altro spettatore. Un'impresa epica che riuscii a superare solo grazie all’aiuto dei gruppi organizzati che vedendomi in difficoltà presero il mio nipotino e lo piazzarono su un sediolino ritagliato appositamente per lui. Vi lascio immaginare la scena: 15 secondi nel guardare la partita e 15 per girami e dare un occhio mio nipote, io condividevo il posto con un tifoso e lui che ballava e cantava con i Ragazzi della Curva: 13 anni, alla sua prima partita allo stadio, preso a mo’ di Mascotte dagli Ultras e con Cavani che gli regalò anche una magica doppietta. Re di una notte indimenticabile, da tutti i punti di vista.

Il cerchio che si chiude

Anche se ai miei occhi resterà sempre impressa l’immagine di quel ragazzino, oggi mio nipote è cresciuto, è un uomo indipendente, e la sua scelta di diventare un tifoso azzurro - la sua decisione di battersi per la maglia azzurra - sta per essere ripagata, ed essere stato anche in sua compagnia in una domenica di festa - tra le strade di una Napoli che, nonostante la mancata matematica acquisita, non ha desistito nello sfoggiare tutto il suo folklore, i suoi colori, la sua fantasia e il suo modo unico di festeggiare un momento di gioia atteso da 33 anni - mi ha immensamente inorgoglito.

Questo scudetto è anche per loro, per una generazione di fenomeni, temerari, gli eroi del nuovo millennio, i veri fuoriclasse sono loro che non ha avuto il timore di patirne le pene, che hanno sposato la causa azzurra nei momenti di incertezza e che hanno scelto di dedicare anima e cuore nel sostenere Partenope al cospetto dei più convenienti, famigerati e pluridecorati club nazionali.