Il solo racconto di un Antonio Conte di nuovo vicino alla panchina del Napoli ha gettato l'intero mondo del calcio italiano nella fibrillazione: euforica, per una buona fetta di appassionati, curiosi di vedere la personalità focosa e fumantina del tecnico leccese sulla panchina del Napoli. Di terrore e disperazione da parte di tutti gli altri, che per un motivo o un altro ritengono questo passaggio da scongiurare ad ogni costo.

Sicuramente, ne hanno molta oltre la linea gotica. Un'intera fetta di paese guarda con malcelato terrore all'idea che il Napoli, che dopo la vittoria dello scudetto, malvolentieri accettata, stagna in posizioni più consone ai loro auspici, possa rilanciarsi con l'allenatore italiano più vincente tra quelli disponibili. E che, soprattutto, Antonio Conte torni ad allenare in Italia proprio al Napoli e non in una delle tre strisciate, ribaltando così anche la gerarchia del calcio italiano.

Perché Conte, l'esperienza nerazzurra insegna, rappresenta più di un semplice (mica poco, eh) grande allenatore: è un messaggio politico, significherebbe rivendicare un ruolo, un'ambizione. Rivalsa e rilancio, anche per rompere uno stereotipo: quello del Napoli patria di personaggi accondiscendenti che riaffiora rinfrancato dopo una stagione negativa.

E ancora, significherebbe, per De Laurentiis, ribadire che quella di quest'anno è un'esperienza passeggera e non l'epifania di una congiuntura regressiva. Perché Conte è l'unico allenatore in grado di rimettere il Napoli al tavolo delle grandi già così. Perché è un allenatore di livello, certo: ma anche e soprattutto per l'innata capacità di rubare la scena, di alzare il livello della competizione e di saper stare al centro del palcoscenico.

De Laurentiis metterebbe a tacere coloro che hanno pontificato sull'addio di Spalletti, tacendo le spigolosità del toscano ed imputando ad invidie di protagonismo la separazione dello scorso giugno.

Conte fa paura anche a chi racconta di un Napoli improvvisato, di un modello gestionale basato sulla casualità; il suo arrivo distruggerebbe un anno di retorica (non di critica, perché quella c'è stata ed a buon ragione), scagionando la società dall'accusa di una mancata visione strategica. E forse certificando l'impasse della scorsa primavera, quando il De Laurentiis visionario ha ceduto il passo al temporeggiatore, finito per accontentarsi delle briciole per timore di rimanere a bocca asciutta.

Ecco, Conte a Napoli fa paura al coro greco che ha accompagnato, a targhe alterne, i vent'anni del Napoli di De Laurentiis, perché li costringerebbe a mettere in discussione la serie di considerazioni assolute spacciate per certezze, architravi del movimento papponista. Fa paura a chi si accontenta del Napoli come favola, eterno parvenu del calcio italiano.

Ma Conte al Napoli fa paura anche a chi, in buona fede, teme che il tecnico, raccontato come esigente ed interventista, possa mettere in crisi un modello bassato sulla sostenibilità prima di tutto: un modello che, anni fa, ha ribadito la sua alternatività ad un sistema, che in Conte ha sempre visto un alfiere ideologico, per cui competitività equivale ad investimenti onerosi, ingaggi pesanti e calciatori pronti. Conte a Napoli fa paura anche a loro. Ed è bene dunque cogliere in questa sfumatura di preoccupazione la particolarità del momento storico che sta vivendo l'era De Laurentiis.

Fuori dall'ingombro, Conte significherebbe irrobustire il Napoli, in un momento in cui i risultati sportivi sono al minimo storico: sarebbe, per certi versi, una manovra keynesiana, assimilabile, pur nelle diversità, a quanto accadde nell'estate del 2013, quando il Napoli che aveva perso Cavani e Mazzarri si lanciò verso una dimensione che pareva impronosticabile, andando a confrontarsi con una grandezza - di allenatore (Benitez) e calciatori (Higuain, Albiol, Reina su tutti)- che parevano troppo grandi per essere financo avvicinati.

Il Napoli, nonostante tutto, oggi può permettersi Conte, come allenatore e come progetto politico. Può permettersi un mercato importante. Può permettersi di costruire il proprio rilancio. Ed è questa considerazione, più che la notizia, la voce, il chiacchiericcio a significare, oggi.

Ma, va detto, anche a denti stretti, che la paura, questa paura, è legittima: è, forse, la stessa paura che attanaglia un De Laurentiis che, mai come in queste settimane, appare taciturno e irrequieto. Sarà il respiro profondo prima del balzo?

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