“Papà, ma quindi lo vinciamo lo scudetto? È sicuro?”.

Me lo chiede così, a tradimento, appena uscito da scuola, una pioggerellina fitta e fastidiosa che ci bagna la faccia, io che procedo a passo svelto perché ho dimenticato l’ombrello, il peso dello zaino del Napoli sulle spalle.

“Fermiamoci qua sotto. Sta incasando”, gli dico trovando riparo sotto l’androne di un palazzo. Ho il fiatone.

“Allora? Lo vinciamo o no?”, insiste. Non molla.

Mi guardo in giro. Non c’è nessuno. Fino ad ora sono stato il re degli scaramantici. Ma le ultime prestazioni hanno spazzato via ogni dubbio. Non si tratta più di stabilire se succederà. Solo quando.

Non riesco a nascondere un sorriso che mi illumina il volto. Mi sento come quando da bambino preparavo le calze per l’arrivo della Befana.

“Sì, lo vinciamo!”, rispondo incrociando il suo sguardo.

“Sei sicuro sicuro?”, chiede ancora.

È incredulo. Gli ho sempre detto che la palla è rotonda, che vincere qui è molto più difficile che da qualsiasi altra parte, che nel calcio mai dire mai, che ogni partita nasconde delle insidie, che fino all’ultimo secondo può succedere di tutto.

E adesso è spiazzato da questa mia improvvisa convinzione.

“Papà, ma quando il Napoli ha vinto lo scudetto che è successo?”, chiede super curioso.

Potrei raccontargli del primo scudetto. Dell’attesa, la notte insonne, l’esplosione di festa, quel signore anziano nei distinti che mi guardò e disse “e che mazzo che hai avuto! Io ho aspettato 60 anni!”. Della città dipinta d’azzurro, degli striscioni, dei balli, dei vecchi che piangevano di gioia.

Eppure mi torna alla mente il secondo scudetto. Forse perché ero più grande. Forse perché vinto contro quel Milan stellare, al fotofinish, un testa a testa emozionante fino alla penultima, quando noi passeggiammo a Bologna e loro crollarono nella fatal Verona.

“Ma lo sai che il secondo lo vincemmo proprio contro la Lazio?”

“Wow! Giochiamo venerdì contro la Lazio. E che successe? Eri allo stadio?”

“Certo. Avevo l’abbonamento. Pensa che la partita cominciava alle 16 ma io e il nonno entrammo alle 11”.

“Cinque ore prima? Tantissimo! E non ti annoiasti?”

“Per niente! Mi godevo ogni singolo istante. Mi guardavo attorno, in quel mare di bandiere azzurre, di facce sorridenti, e sentivo che quella era proprio casa mia. Sventolavo la mia bandiera, cantavo i cori della curva, mi preparavo alla festa”.

“Non avevi paura che il Napoli non vinceva?”

“No. Bastava un pareggio. Ma ero sicurissimo. Neanche un piccolo dubbio. Come adesso”.

Non ce l’avevo ancora quella sensazione che mi avrebbe accompagnato negli anni seguenti. Quell’ansia che ti stritola la pancia, che ti fa pensare che se una cosa potrebbe andare male probabilmente lo farà. Forse era l’età. O quella squadra. Chi lo sa.

“E quanto finì?”

“1 a 0”.

“Segnò Maradona?”

“No. Fece l’assist. Punizione defilata: pennellata di Diego, colpo di testa di Baroni. Ci fu un boato talmente forte che pensai potesse crollare lo stadio”.

“Baroni? Chi è?”

“Un difensore. Adesso è l’allenatore del Lecce”.

“E poi?”

“E poi della partita non ricordo altro. Affianco a me c’era un ragazzo della mia età che era milanista. E per tutto il tempo continuò a ripetere che quello scudetto non lo meritavamo, che a Verona la settimana prima erano stati derubati, che la monetina di Alemao era stato uno scandalo, e loro sì che giocavano un grande calcio mica noi…”.

“E tu?”

“Io non dissi niente. Ci pensò il padre. E bast! Mo c’eccis a papà, disse quasi a scusarsi per quel figlio degenere. Si misero a ridere tutti”.

Ride anche lui.

“E poi?”

“E poi finalmente arrivò il novantesimo. Hai presente Capodanno? Mille volte peggio. Al triplice fischio non si capì niente. Chi urlava, chi rideva, chi piangeva. Fuochi d’artificio. Ma non ci fu l’invasione di campo. Rimanemmo tutti composti sugli spalti. Festeggiammo per un sacco di tempo, poi tornammo a casa. Per arrivare a Via Epomeo ci mettemmo più di un’ora. C’era il delirio: traffico, bandiere, clacson impazziti, gente sulle macchine, sconosciuti che si abbracciavano, motorini che spuntavano ovunque…”.

“E che facesti?”

“Mi incontrai con gli amici del parco. Ci abbracciammo, restammo un po’ in mezzo alla strada, a saltare euforici tra le macchine. Poi qualcuno propose di andare ad accogliere la squadra al Campo Paradiso. Ci eravamo appena incamminati quando mi venne un’idea…”.

“Che idea?”

“Devi sapere che nel parco dove abitavo non potevamo giocare a pallone”.

“Perché?”

“Perché la gente si lamentava del casino. E il portiere del parco ci bucava tutti i palloni…”.

“E voi?”

“E noi giocavamo lo stesso, con qualsiasi cosa avesse una forma sferica: palline da tennis, da ping pong, palle di carta arrotolate con lo scotch. Addirittura le pigne. Ma finiva sempre che il portiere ci obbligava a smettere. Ma quel giorno no. Quel giorno stavano festeggiando tutti. Anche il portiere …”.

“E allora?”

“E allora proposi di andare a giocare. Immagina: fuori, nelle strade, una festa che al confronto il Carnevale di Rio de Janeiro sembrava un funerale. Dentro al parco noi, finalmente liberi di urlare quanto volevamo, a rincorrere una Miniball azzurra emulando le gesta di Maradona e Careca…”.

E mentre i ricordi diventano nitidi mi viene un nodo alla gola. Avevo 13 anni. Il Napoli aveva appena vinto lo scudetto. Il più grande della storia giocava nella mia squadra. Ero con gli amici di una vita.

Libero, spensierato, senza un problema che sia uno nella testa, a fare la cosa più bella che c’è.

“E come ti sentivi, papà?”

Ci penso un attimo. C’è solo una parola per descrivere quel momento.

“Felice. Sì, ero davvero felice”.

“Papà, ma mica stai piangendo?”

“No, ma che dici! È solo una goccia di pioggia. Andiamo che è tardi”.

“E noi? Noi cosa faremo quando vinceremo lo scudetto?”, mi chiede mentre ci incamminiamo verso casa.

Lo guardo dritto negli occhi. Con una mano gli scompiglio i capelli.

“Cosa faremo? Allora, ascoltami bene: perché questa cosa te la ricorderai per tutta la vita…”.