Heysel: il black-out della ragione
Ho un rapporto particolare con la morte, sacro, di profondo rispetto. Probabilmente perché ne ho conosciuto il significato e il dolore in tenera età e ne comprendo l’essenza. L’entità. Lo sconforto dell’essere umano va oltre ogni rivalità, e rende futile è sterile qualsiasi fede o appartenenza calcistica.
Quella del 29 maggio del 1985 doveva risultare una festa per lo sport ma si rivelò uno scempio insensato e furente messo a punto dall’odio e dalla stupidità.
Trentanove morti, di cui 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e 1 irlandese che si consumarono dopo il crollo della tribuna Z dello stadio Heysel di Bruxelles che ospitava la finale dell’allora Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Salme restituite che non furono nemmeno ricucite dopo la dovuta autopsia ai paesi d’origine. Un massacro inconcepibile provocato dai tifosi del Liverpool, i cosiddetti Hooligans, già noti alle forze dell’ordine per i disagi provocati nel recente passato. Il primo ministro del Regno Unito, Margaret Thatcher, dopo appena 48 ore dal tragico evento, ordinò alla Federazione inglese di escludere ad ogni club appartenente di partecipare per un anno nelle competizioni europee, la UEFA ne rincarò la dose: implementando la sanzione per 5 anni.
Ad onor del vero non hanno suscitato benevoli opinioni le dichiarazioni rilasciate negli anni seguenti dai protagonisti di quella incresciosa vicenda, Michel Platini, autore del gol della vittoria bianconera su calcio di rigore, nelle settimane successive dichiarò al periodico Paris Match di non aver mai festeggiato quella vittoria e di tenere per sé le sensazioni provate quella sera, peccato che milioni di telespettatori lo ricordano ancora sorridente e a torso nudo alzare in cielo quella coppa ancora pregna del sangue innocente delle vittime in terra belga. Alla società bianconera, nel 2003, fu recapitata copia del libro La Verità dell’Heysel del giornalista Francesco Caremani, al quale fu data risposta che la Juventus non si occupava di opere che narravano di catastrofi avvenute. Risentimento che lo scrittore provò in maniera duplice in quanto parte in causa della straziante serata di Bruxelles perché amico del dottor Otello Lorentini, presente in quella maledetta serata di maggio allo stadio Heysel il quale vide perdere la vita del figlio Roberto. Lo stesso medico che cercò di salvare con la respirazione bocca a bocca la vittima più giovane di quella tragedia: Andrea Casula di soli 11 anni. Quello che ci attesta maggiore onesta intellettuale è stato Marco Tardelli, l’ex centrocampista della Juventus e della Nazionale qualche anno fa dichiarò che non sapevano cosa stesse davvero succedendo fino a quando i funzionari dell’Uefa non chiesero ai calciatori di scendere sul prato per placare l’ira funesta di quell’odio che si stava riversando sugli spalti. Dopo il messaggio dei capitani delle due squadre rilasciato ai megafoni delle tribune, e dopo che la situazione versava in condizioni di sicurezza, i calciatori scesero in campo testando il tormento della consapevolezza della tragedia che si era consumata. C’era chi chiedeva aiuto, chi di non giocare, chi di battere il Liverpool, ma dell’amore e dei principi dello sport non vi era più traccia.
"Oggi - dichiarò Tardelli - il giro di campo con quella coppa non lo rifarei. Ma il senno di poi non nasconde la vergogna e ancora oggi chiedo scusa”.
Nel 2010 Walter Veltroni uscì nelle librerie con la sua opera letteraria dal titolo “Quando cade l’acrobata, entrano i clown Heysel, l'ultima partita” dove la prefazione narra:
“È la verità, siamo al circo.
Uno dei luoghi piú tristi della vita.
Uno dei posti nel mondo dove nessuno è libero”
C’era chi era a conoscenza del pericolo, poteva ed ha taciuto.
Chi, invece, non ne era a conoscenza e avrebbe potuto sventare la minaccia di quella sciagura.
I clown, parafrasando Veltroni, di quella serata non sono bastarono a regalarci un sorriso. Quella sera abbiamo perso tutti.