Nel 2008 il regista Emir Kusturica girò un docufilm che ripercorreva le tappe più significative della carriera e della vita del barrilete cosmico Diego Armando Maradona. In questa pellicola il regista partì dalle sue umili origini, i primi calci al pallone nei polverosi campetti di Villa Fiorita, i Mondiali del Mexico e gli scudetti di Napoli, fino all'inesorabile declino con la squalifica per doping di USA 94. Decise di farlo non cantandone le gesta, ma lasciando che il Maradona pensiero venisse fuori dalle stesse parole del protagonista.

Diego, che non era uomo da lasciarsi intimorire, anche se ai tempi non aveva lo smalto dei giorni migliori, ricostruì con lucidità non solo gli eventi, ma anche le condizioni politiche e sociali in cui si svolsero. Parlando dei suoi sette anni a Napoli si lascia andare ad una serie di considerazioni, parlandoci di una sensazione, la netta sensazione, che "il Sud non potesse vincere contro il Nord". E lo fa recriminando un sistema che andava ben oltre l'aspetto sportivo, arrivando a dare del mafioso all'allora presidente della FIGC Matarrese e raccontandoci come quelle vittorie, le vittorie del suo Napoli, venissero viste come uno smacco, un'onta per chi proprio non potesse accettare si festeggiasse al di sotto del Po. Un racconto che, andando a rileggere tra le righe della storia recente del calcio italiano, delle reiterate offensive velate o meno mosse contro il club partenopeo, rilasciano ancora oggi quelle stesse ingrate sensazioni.

Meriti a Spalletti, ma è sbagliato delegittimare il Napoli

Sono giorni di vigilia questi, quelli che porteranno al tribolato esordio di Luciano Spalletti sulla panchina azzurra della nazionale. Non siamo interessati a riprendere la vicenda che ha accompagnato l'accordo tra il tecnico e la federazione e non siamo nemmeno interessati a stigmatizzare l'atteggiamento di media e opinionisti che, in barba a chiare regole contrattuali, pretendevano la “liberazione” del neo CT dal giogo aureliano. Il despota senza cuore pronto a stroncare i sogni di un'intera nazione aggrappatasi al tecnico di Certaldo per uscire dal medioevo calcistico che stiamo vivendo. Sia chiaro, questo articolo non vuole discutere i meriti dell'allenatore, che sono tanti e innegabili, ma provare a mettere ordine nella storia attraverso una serie di dati oggettivi privi di personali considerazioni.

Ciò che ci interessa è analizzare come la narrazione che accompagna questa settimana stia esaltando Spalletti attraverso la delegittimazione di una società, un club, un team di professionisti che hanno tutti lavorato perseguendo e raggiungendo l'obiettivo massimo. Tutti hanno voluto dire la loro e tutti, quasi come se si trattasse di un pensiero preconfezionato, hanno voluto richiamare l'ultima stagione come il manifesto dello Spalletti allenatore in qualità di primario, per non dire unico, artefice del successo.

Se si è capaci dalla panchina di vincere, praticamente da soli, uno scudetto in una piazza che in 96 anni di storia ne annoverava appena due, vinti grazie al più grande calciatore di tutti i tempi, questo vuol dire che ci troviamo di fronte ad una figura dai tratti divini. Ma se così fosse perché il suo arrivo a Napoli fu accolto dallo scetticismo generale? Perché dopo il primo anno l'idea di parte della tifoseria era quella di metterlo alla porta? Perché per la stampa era un “perdente”, uno con un ego talmente grande da non sopportare di vivere all'ombra di calciatori come Totti e Icardi? Perché le sue squadre si scioglievano in primavera come neve al sole? Perché per vincere fu costretto ad andare in Russia e perché l'Inter preferì esonerarlo?

Spalletti non cammina ancora sulle acque

Oggi gli si conferisce addirittura il merito di aver portato Osimhen e Kvararaskhelia nella lista dei 30 candidati al Pallone d'oro, come se le doti innate di questi giovani talenti non abbiano peso. Ci chiediamo, vista questa miracolosa capacità, perché non abbia fatto lo stesso con Gagliardini a Milano o Julio Baptista a Roma.

Per il grande Milan di Sacchi si spellarono le mani per il suo Presidente, per la Juventus di Lippi non si poté far a meno di mettere in risalto il valore dei suoi dirigenti, per l'Inter del triplete non si poté, altresì, non parlare del grande lavoro messo a punto da Massimo Moratti. E allora perché per il Napoli che vince il suo terzo scudetto - con uno scouting capace di sostituire “vecchi senatori” con giovani rampanti, e una società che si presenta libera da debiti in un calcio che si mantiene sul ricatto bancario - bisogna inchinarsi al cospetto di un solo uomo? Forse perché oggi quest'uomo non fa più parte del club e bisogna affannarsi per insinuare il dubbio, in una piazza volubile come quella partenopea, che da oggi la strada non è solo in salita, ma impervia? Perché c'era la concreta possibilità di aprire un ciclo vincente, ma adesso è tutto finito?

Spalletti arma di destabilizzazione

Ci dispiace, ma anche volendo non riusciamo a credere che gli onori rivolti a Spalletti non siano imbevuti da una sottile malizia, il cui recondito scopo è quello di destabilizzare l'ambiente Napoli. La volontà malcelata di relegare Napoli ad un ruolo secondario, marginale e che comunque non indisponga la triade del Nord.

Attacchi continui, che colpiscono su più fronti e per i quali il Napoli può rispondere solo attraverso un assordante silenzio, perché qualsiasi tipo di reazione, anche se giusta, anche se forte nei termini, sarà osteggiata dai suoi stessi tifosi. Non è forse questa la più grande vittoria del “nemico”?

“Non devi neanche pensare che i posteri ti renderanno giustizia. I posteri non sapranno mai nulla di te. Sarai cancellato dal corso della storia e di te non resterà nulla. Sarai annientato sia nel passato sia nel futuro”.

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