Succede sempre, tutte le volte che il Presidente De Laurentiis è atteso per un evento o rilascia interviste, sento un brivido scendere lungo la schiena. Non è paura, anzi, ma una sorta di eccitazione, di morbosa curiosità nello scoprire come stavolta le sue parole riusciranno a far scricchiolare le vetuste fondamenta dell'Italia pallonara.

Il “bel paese” si sa, regge su rapporti clientelari, sulla banalizzazione della realtà, sulla paura di non forzare fragili equilibri. Un malcostume che ci ha portati negli anni a scalare alla rovescia i gradini di un invisibile ranking, declassandoci da super potenza a semplice comparsa delle sorti globali, aggrappati a una rispettabilità che come una candela accesa si consuma inesorabile.

Un lento declino che coinvolge anche il nostro calcio, fino a poche decine di anni fa motivo di vanto e che oggi ci vede rassegnati, al limite della sottomissione, allo strapotere della Premier e delle big spagnole.

Da qui la necessità di una serie di riforme che permettano alla Serie A di ritornare non solo competitiva, ma soprattutto appetibile oltre i nostri confini, perchè è proprio fuori frontiera che vanno ricercate le risorse per riportare in auge il nostro campionato. E non stiamo parlando di fondi pronti a speculare sulla nostra pelle, alla ricerca di club da amministrare al solo scopo di generare dividendi, ma di appassionati amanti del calcio, fruitori di un servizio che oggi non è paragonabile a quanto i nostri competitors sono in grado di garantire.

Ecco che la necessità sta nel rendere appetibile il nostro campionato, trasformandolo in un prodotto richiesto e rivendibile al pari di quello inglese o spagnolo, ma come? Prima di tutto staccando quel cordone ombelicale incancrenito, che ci lega ad una visione del calcio che più che romantica sa di patetico. Imparando ad abbracciare il cambiamento e avvicinandoci ad una visione globalizzata, moderna e accattivante.

È in questo scenario che si collocano le parole del Cavaliere del lavoro Aurelio De Laurentiis che, come quello oscuro di Christopher Nolan, non è altro che “l'eroe che non meritiamo, ma di cui abbiamo bisogno”. L'antidivo pronto a traghettarci verso un nuovo futuro, scrostato dalla ruggine di anni passati a specchiarsi, con la malinconia di chi guarda foto ingiallite della giovinezza che fu.

“Se ci sono due realtà che salgono in A, ma nessuno vuole vederle in Tv, questo crea un disagio. A tutti va dato il diritto di arrivare, però servono limiti”.

Sia chiaro, che il Presidente sia un tipo fumantino non possiamo nasconderlo e la sua dialettica diretta e sferzante si presta a facili critiche, ma come spesso accade nessuno è disposto a vedersi sbattere in faccia la realtà delle cose, perchè la verità è come una medicina amara, nessuno vuole prenderla anche se fa bene.

Quello che però fa specie è la reazione cyber-adolescenziale del Frosinone, compagine in lotta per la promozione, che sentitasi presa in causa e risentita per tali affermazioni, ha affidato ai propri canali social una risposta che definire piccata sarebbe un eufemismo.

Che i rapporti tra il club azzurro e quello ciociaro del Presidente Stirpe non siano idilliaci è cosa risaputa, con le prime schermaglie risalenti al 2019, quando in un'intervista al New York Times il numero uno azzurro si lasciò andare a dichiarazioni forti:

“Che ci fa il Frosinone in Serie A? Non attira spettatori, né interessi, né emittenti nel campionato. Arriva in A, non cerca di competere e torna indietro.”

Ora se da un lato il risentimento dei gialloblu laziali è più che condivisibile, dall'altro non possiamo negare che esiste un fondo di verità nelle parole del buon Aurelio. Perchè se da un lato la meritocrazia deve essere il cardine su cui poggiare qualsiasi competizione, dobbiamo ambire ad un livello di antagonismo tra le squadre della stessa serie che impedisca di assistere a campionati dall'esito scontato. E non mi riferisco solo alla parte alta della classifica, ma anche a quella che coinvolge le squadre per non retrocedere.

In fondo una stagione non è fatta solo di scontri al vertice, di partite di cartello, ma soprattutto di cosiddette sfide minori che devono comunque garantire un livello adeguato di spettacolarità. Non solo, lo spettatore deve sempre avere la percezione, come accade in Premier, che anche l'ultima in classifica può giocarsela con la capolista.

E invece abbiamo passato anni a vendere un prodotto mediocre, con squadre che a fine stagione si dividevano la posta quasi a tavolino, con club ormai rassegnati alla retrocessione al giro di boa.

Ed ecco che se in Premier tra l'ultima e la dodicesima ballano appena 5 punti di distacco e lo stesso in Spagna se si considera la penultima, in Italia la distanza di Sampdoria e Cremonese dal dodicesimo posto occupato dal Monza è addirittura di 11 punti.

Vogliamo parlare del format della nostra Coppa nazionale? Con le big in gioco solo gli ottavi e il favore del campo casalingo, quando oltremanica non sorprende assistere a match tra club di Premier e dilettantistici, in modesti campi di paese.

E invece noi abbiamo avvelenato a piccole dosi il nostro calcio, reso i piccoli club assoggettati ai potenti, tanto da permetter loro di condizionarne le scelte in sede di mercato. Abbiamo plasmato un prodotto sulle esigenze di poche squadre, dirottando tutte le risorse nelle loro mani, incapaci a loro volta di sfruttare un simile vantaggio a livello europeo e diventando colpevoli della stagnazione dell'intero movimento. Gli stessi club che oggi lamentano il distacco dalla Premier, ma che nascondono il fatto di avere avuto negli anni un trattamento economico, in termini di diritti televisivi, pari alle compagini inglesi di prima fascia.

Quindi perchè non riportare la Serie A a 18 squadre, come nella Bundesliga, introducendo magari i play-out in modo da coinvolgere più squadre nella bagarre e tenere sempre alto il livello della competizione anche in quelle posizioni che oggi sono un limbo nel quale molte squadre si adagiano?

Per non parlare della necessità di dotarsi di una serie di leggi che limitino, andando a punire in maniera severa, chi si macchia di atti violenti e discriminatori negli stadi o comunque riconducibili al calcio. Leggi che aiutino le società a snellire i processi burocratici necessari a dotare le squadre di stadi accoglienti, fruibili sette giorni su sette e che possano generare profitto da reinvestire per migliorare il livello tecnico delle rose.

E invece si preferisce svendere e svilire un prodotto che potrebbe essere un fiore all'occhiello dell'economia nostrana se solo fosse amministrato con competenza e lungimiranza, la stessa che oggi colloca il Napoli al vertice del campionato e con più di un favore nel prosieguo dell'avventura europea in Champions.

Perchè se la reazione del Frosinone, questa volta non chiamato direttamente in causa, può anche dirsi motivata, mi chiedo perchè sia mancata quando mesi fa un pugno di squadre ha tentato il golpe, provando a cancellare con un colpo di spugna quel principio meritocratico a loro tanto a cuore.

L'inchiesta Prisma si prepara ad essere un nuovo terremoto per il calcio italiano, l'ennesima possibilità a distanza di 17 anni di disegnare nuovi equilibri, abbandonando infausti modelli e malsani miti. Allora la vittoria del Mondiale anestetizzò l'opinione pubblica, illudendola della bontà del modello italiano, incapace di comprendere che avevamo assistito soltanto al più classico dei colpi di coda, un ultimo spasmo incontrollato. Oggi invece il successo del Napoli, della politica societaria di De Laurentiis, può portare l'intero panorama nazionale ad assistere ad una nuova alba, capace di illuminare un calcio fatto di idee e di competenze, che si manifesta alla luce del sole e non tra le ombre di un “palazzo” che mostra ormai segni evidenti di cedimento.

Un cambiamento da affrontare con coraggio, senza limitarsi alla cura del proprio orticello, ma spinti da sincero fervore scevro di infantili campanilismi e rapporti di convenienza.

“Alea iacta est” il dado è tratto.