L'unica cosa in comune tra il Napoli di Maurizio Sarri e quello di Luciano Spalletti è che entrambi non hanno vinto niente. Ma se per il primo la mancanza di trofei è una condizione definitiva, per il secondo è solo questione di ore.

I paragoni nel calcio, generalmente, non rendono onore alla profondità delle analisi. Rischiano di diventare delle sintesi approssimative e fuori da ogni contesto spazio temporale. Roba da giornalisti sportivi, insomma. Ma la storia lascia sempre elementi oggettivi. Incontrovertibili. Spalletti ha unito ciò che Sarri ha diviso.

Il Napoli di Sarri

Qualcuno ha detto che il Napoli dei 91 punti recitava la più bella delle poesie, ma sempre la stessa e con gli stessi interpreti. Era la bella epoque dei titolarissimi, il periodo in cui si discuteva di quanto il turn over fosse antagonista delle vittorie, principio in contrapposizione alle idee europeiste di Rafa Benitez, passato da qui qualche anno prima con la missione di sgrassare l’ambiente da concetti troppo ancorati a filosofie pallonare degli anni ’90, in cui lo spogliatoio era diviso in gerarchie e le responsabilità della stagione tutte sulle spalle dei tre tenori di turno.

Sarri ha l’enorme merito di imporsi, da outsider, come mediatore dei due mondi. Il vecchio e il nuovo. Al nuovo appartengono il concetto di dominio del gioco espresso grazie a una linea difensiva con i piedi sul centrocampo, squadra in trenta metri, triangoli invertiti e palla dietro palla avanti. Tutti inneschi per giocate codificate e, seppur riconosciute dagli avversari, inarrestabili. Un calcio di sistema in cui l’insieme delle tecniche individuali hanno la meglio sulla giocata del singolo. Si contano sulle dita di una mano i contropiede o le azioni solitarie che hanno portato gol nell'intero triennio.

Del vecchio calcio, invece, conserva la gestione gerarchica del gruppo, ai limiti del nonnismo. Undici titolarissimi e il resto panchinari, nessun "titolare dei suoi minuti" o parabole filosofiche del genere. Niente: solo titolari e panchinari. Non esistono ancora i cinque cambi e la questione dell’impatto dei subentranti non è dunque posta al centro del dibattito calcistico. Titolari e panchinari. Stop.

Il Napoli di Sarri è stata una macchina infernale che ha raggiunto il suo apice di efficienza nell’anno dei 91 punti. La ricerca ossessiva della perfezione ha avuto l’unico demerito di annientare i margini di miglioramento. Azzerando il futuro. Un all in tecnico e mentale che non ha lasciato margini di manovra una volta sfumato il sogno, alimentando la malsana idea di irripetibilità e lasciando nella mente del tifoso la frustrazione dell'occasione che mai più tornerà.

Il Napoli di Spalletti

Dopo quello di assestamento - che ha portato una qualificazione Champions che mancava da due anni - questo è stato il primo vero anno che appartiene a Spalletti. Luciano riceve un foglio bianco sul quale dipingere l'idea che si è fatto del calcio nei due anni che lo hanno visto lontano dai campi. Una dinamica diversa dalla scelta di affidare un gruppo già formato a Sarri, chiamato a raddrizzare un'idea di gioco, se pur futuristica, mostratasi troppo fluida e poco continua con la gestione Benitez.

Il Napoli di Spalletti sa fare tutto. E lo sa fare bene. Sa difendere e attaccare. Sa giocare nello stretto e verticalizzare. Riesce a spostare gli autobus di Spezia Empoli e Roma, ma sa anche ribaltare le partite di Milano e Bergamo. Un'imprevidibilità tattica che ha origine nella composizione della rosa. Due giocatori per ruolo, ma caratteristiche uniche e sapientemente gestite.

Spalletti introduce il concetto di titolare dei propri minuti. Elimina dal lessico delle press conference la parola turn over. Si fa forte dell'irripetibilità tecnica di ogni suo calciatore. Un approccio che gli permette di non dover rinunciare a giocarsi le sue carte anche in Europa. Il Napoli si scrolla di dosso la condanna a dominare con il possesso palla ogni partita. Anche quelle che non ha senso dominare. Il peso tattico viene ridistribuito su ogni componente del meccanismo e la lucidità generale ne trae vantaggio.

L'apoteosi del concetto di gruppo, la ricerca compulsiva dei comportamenti corretti con i quali riempire i novanta minuti in campo e le finestre mediatiche, che si aprono prima e dopo il match, sono il marchio a fuoco di una gestione incredibilmente efficace.

Spalletti batte Sarri in comunicazione emotiva

Se in campo i due tecnici hanno mostrato doti diverse, ma in ogni caso proiettate alla valorizzazione della bellezza nel calcio - integralismo più, integralismo meno - è davanti ai microfoni che il termine di paragone tra i due toscani non ha ragione di esistere.

Sarri è riuscito nella mirabolante impresa di non rendere omaggio alla sua filosofia tecnica con atteggiamenti costantemente anti sistemici, alla continua ricerca dell'alibi. Passino anche quelli verso l'esterno ma, alla luce degli ultimi anni, oggi sono ancora più incomprensibili quelli rivolti alla società.

Gli ultimi tre mesi della sua esperienza napoletana hanno prodotto un danno incalcolabile per il club. Dal punto di vista economico, trovandosi costretto a non poter contare sugli investimenti fatti con gli incassi della clausola di Higuain, calciatori giovani rimasti vittime di una gestione conservativa del gruppo. Non pochi hanno confessato che il mister stentava persino a salutarli durante gli allenamenti.

Il club si è ritrovato con un patrimonio tecnico bruciato nella testa prima che nelle gambe o nelle capacità tecniche. Ma il danno più grande è stato quello ambientale. Il Sarrismo è stato, di fatto, l'anticamera dell'asedcismo più estremo. Una dottrina anti societaria che ha portato la piazza sull'orlo di una crisi di nervi, macinando persino totem indiscutibili come Carlo Ancelotti, messo alla berlina da un gruppo di superstiti del triennio, intossicati dalla contrapposizione creatasi, fino alla deflagrazione dell'ammutinamento del novembre 2019.

Chi sta con me, sta con la società!

Luciano Spalletti, prima conferenza da allenatore del Napoli

Spalletti ha unito ciò che il Sarrismo aveva diviso, riuscendo a ristabilire gli equilibri persi tra società e tifosi in un gioco perverso di interessi personali. Ha indottrinato una piazza oramai scomunicata dal senso di appartenenza. Ha ricordato a tutti che prima di chiedere occorre assumersi le responsabilià. Si è fatto carico di ripulire uno spogliatoio ammuffito dal rancore e dai fantasmi personali. Ha fatto tabula rasa e poi ha iniziato a dipingere. Con tratti decisi, severi, perentori.

Gran parte dello scudetto che si appresta a vincere lo ha conquistato davanti alle telecamere. Si è esposto personalmente rispetto allo scempio sugli spalti durante Napoli Milan. Ha protetto ogni singolo uomo della rosa, lo ha valorizzato, inventandosi la parabola dei titolari nei propri minuti. Ha chiesto a tutti di lavorare solo per lei. Ha individuato da subito i veri nemici del Napoli e li ha messi alla berlina, smascherandoli, rendendoli innocui.

La vittoria di Luciano Spalletti a Napoli è frutto di un altruismo silenzioso, fattuale, e lascerà a questa piazza ancora anni da protagonista, con o senza di lui al comando, avendo scavato un solco con gli altri club difficlmente colmabile. Ha dimostrato che a Napoli si può vincere. Ha distrutto i luoghi comuni sulla città, normalizzandola. Ma anche combattendola a viso aperto, senza ipocrisie. Non potevamo chiedere di meglio che un buon esempio. Anche il destino si è arreso e ha premiato il più valoroso, incidendo il nome di Spalletti, per sempre, sulle mura della città.