Lo so, ne sono consapevole: questo pezzo potrebbe invecchiare male. Malissimo. E da tifoso me lo auguro. 

Ma se un indizio è un indizio, due sono una coincidenza e tre fanno una prova, ho pochi dubbi: siamo messi male.

Ogni volta che ieri sera le telecamere si soffermavano sul tecnico azzurro non riuscivo a fare a meno di chiedermi: come è successo? Come siamo arrivati a questo punto? Che cosa ha visto il presidente in quest’uomo? Quali caratteristiche lo hanno affascinato? Quali sono le qualità di Rudi Garcia che a noi comuni mortali sfuggono?

Sarà stato lo stile? Lo charme? L’erre moscia? La consapevolezza (errata) “che questo Napoli è talmente forte che può allenarsi da solo?”

O forse la sbornia post scudetto?

In fondo non lo biasimo. 

Anche io nei giorni (mesi va) successivi al tricolore vivevo in un tale stato di beatitudine da non preoccuparmi delle scelte di mercato. Seguivo con distacco le voci del toto allenatore. Sognavo Klopp o Luis Enrique come tutti, ben sapendo che non erano alla nostra portata. Ero affascinato da una rivoluzione targata Antonio Conte. Ero incuriosito dai profili giovani, i vari Italiano, ThiagoMotta, Palladino, che all’epoca non mi sembravano ancora pronti e oggi rimpiango come Pep Guardiola.

Mai e poi mai avrei pensato potesse venire Rudi Garcia. Un allenatore di cui avevo perso le tracce dai tempi della Roma. Stagioni poco brillanti in Francia, con Marsiglia e Lione, una semifinale Champions nell’anno particolare del Covid, l’esonero in Arabia.

Quando in una calda sera di giugno lessi il tweet presidenziale pensai che gli avessero hackerato il profilo. O che a scrivere fosse qualche account pezzotto.

L’incredulità durò poco. Ero (come tanti di voi) nel mood “questa società merita fiducia” e decisi di mettere da parte i miei pregiudizi e sostenere al massimo il nuovo allenatore.

Meglio evitare giudizi affrettati. Sarebbe stato il campo a parlare.

Ho vissuto un’estate particolare. Non dico che mi sono disinteressato del mercato, impossibile, ma l’ho vissuta con più leggerezza. Di solito i miei migliori amici erano Fabrizio Romano e Gianni Di Marzio, ma a sto giro volevo ancora godermi la gioia dello scudetto.

Certo, a pensarci adesso, col senno di poi, qualche indizio che ai piani alti ci fosse un po’ di confusione c’erano tutti: la nomina, dalla sera alla mattina, di un Ds sconosciuto, la telenovela infinita del rinnovo ad Osihmen, il ritardo clamoroso nella sostituzione di un pilastro come Kim (Natan chi?), i litigi con Gravina, gli infortuni a ripetizione durante la preparazione, i tweet stizzati.

Ma il mood era sempre lo stesso: “questa società merita fiducia. Sarà il campo a parlare”.

Le prime due partite non mi avevano convinto. Una buona reazione a Frosinone, un discreto primo tempo col Sassuolo e un secondo agevolato dalla superiorità numerica. Il gioco spumeggiante dell’anno scorso era un lontano ricordo ma, vabbè, mi dicevo, è normale, è l’inizio, stanno trovando la quadra, diamo tempo al tempo.

Poi un buon avvio con la Lazio fino al tacco di Luis Alberto. Da quel momento sono crollate tutte le certezze. Una ripresa in cui la banda di Sarri ci ha dato una lezione tattica, mentre i nostri, in bambola, confusi, lunghi, trasmettevano la sensazione di non avere idea di come muoversi in campo.

Ho cominciato a preoccuparmi. E a mio figlio di 8 anni che mi chiedeva perché questa squadra giocasse così male ho risposto: “è presto, dobbiamo avere fiducia”.

Ma la fiducia è crollata definitivamente con i primi 70 minuti di Genoa. Il vuoto cosmico, il nulla assoluto, un possesso palla sterile e la sensazione che mi ha riportato indietro di qualche anno, quella fragilità di poter prendere gol ad ogni ripartenza.

Neanche il pareggio in extremis mi ha rincuorato. Come non mi ha rincuorato la vittoria di ieri sera. Non ricordo di essermi mai intossicato tanto dopo aver conquistato tre punti.

Cambi sbagliati, pessima lettura della partita, atteggiamento confusionario, giocatori che all’improvviso sembrano diventati scarsi.

E se il campo racconta di una preoccupante mancanza di idee, a livello comunicativo le cose vanno ancora peggio.

Il buon Rudi appare spocchioso e presuntuoso. Non ricorda come ha giocato questa squadra l’anno scorso, scarica sui ragazzi le responsabilità, si arrampica sugli specchi paragonando i passi falsi degli azzurri a quelli di altre big europee, non ha tempo di vedere le prestazioni dei suoi giocatori in nazionale.

Nessuna autocritica. Nessuna spiegazione tattica sull’involuzione di gioco. 

“Manca determinazione”, come se in campo ci andassero solo la grinta e la voglia di far bene e non contasse nulla l’organizzazione tattica

Le sue risposte appaiono banali. A tratti sconcertanti.

Come è successo? Come siamo arrivati a questo punto? Che cosa ha visto il presidente in quest’uomo? Quali caratteristiche lo hanno affascinato? Quali sono le qualità di Rudi Garcia che a noi comuni mortali sfuggono?

Me lo chiedevo a loop, ieri sera.

Poi è arrivato Juan Jesus davanti le telecamere: “il mister ci chiede di giocare compatti e in contropiede”.

Ho avuto un mancamento.

Perché, credo, sia evidente a tutti che questa squadra non ha nel suo dna queste caratteristiche.

È come dire ad un tenore “ok, sei bravo, ma da domani facciamo rap”.

E allora forse in quei colloqui estivi c’è stato un misunderstanding. Perché non basta dire faccio 4 3 3 per proseguire l’idea di calcio del tuo predecessore. Perché questo 4 3 3 è uguale in uomini e numeri, ma è completamente diverso nell’interpretazione.

Un’interpretazione balbettante che ci ha fatto vedere in campo un Napoli smarrito, vulnerabile e senza certezze.

Un Napoli a cui non eravamo più abituati.

Ma forse siamo ancora in tempo.

Forse qualcuno ai piani alti ha gli stessi nostri dubbi.

Forse qualcuno ai piani alti si sta chiedendo se, continuando questa strada, Osihmen l’anno prossima varrà 150 milioni, Kvara 100 e Lobotka 60.

Forse qualcuno ai piani alti si sta facendo due conti.

E sta valutando se gli conviene.