L’aria fresca di una serata portoghese annuncia in maniera impeccabile l’ingresso di un uomo appesantito dai pensieri. Il francese, quasi a voler sbattere in faccia al mondo la sua fiera appartenenza alla grandeur, porta sotto il braccio un quotidiano ingiallito, un Le Figaro di qualche giorno fa, ed una monografia su Napoleone, scritta da Jean Tulard.

Si siede, nel posto che la Uefa gli ha riservato, incastonato tra gli sponsor e le relative onnipresenti bottigliette, confuse tra i microfoni.

Rudi Garcia è l’uomo del momento. Un po’ Petain, un po’ Malaussene, la sua esperienza alla guida dei Campioni di Italia è cominciata col piede sbagliato. Inutile nasconderlo, come invece aveva fatto negli immediati post partita dopo la sconfitta con la Lazio ed il pareggio in extremis col Genoa. Stavolta i suoi occhi grigi sembrano risoluti, quasi consci dell’inevitabilità di un destino che, seppur plausibilmente ipotizzato, ha fatto capolino troppo presto.

Prende parola subito, introdotto dal proverbiale Buonasera, espressione di garbo e al contempo segnale di presenza all’interlocutore: devo dire due parole. 

Non siamo soddisfatti. Non sono soddisfatto.

Ero un giovane ex calciatore; avevo cominciato a lavorare nello staff del Saint Etienne, per rendere meno traumatico il mio addio al calcio giocato. Vedere il calcio da dietro una panchina è un’altra cosa. Ti dà una sensazione nuova, quella che in 20 anni da calciatore non avevo mai provato. Allenare significa Comandare.

È il potere, riconosciuto da tutti, di poter incidere: è il dire ‘fai questo’ ‘fai quest’altro’ ‘tu spostati lì, tu spostati là’. Ecco, da quel momento, ho capito che avrei allenato. Che, da una panchina, avrei potuto assecondare il mio desiderio di grandezza.

Garcia, incredibilmente, si accende una sigaretta. Gli addetti dello Stadio di Braga, inaspettatamente distratti, come assuefatti dalle parole pronunciate in una lingua diversa ed estremamente musicale, restano seduti lì, con la costernazione dell’addetto stampa del Napoli, che, guardando verso l’alto, asseconda l’inaspettato desiderio di nicotina.

Sono diventato allenatore. Ho fatto fuori il mio mister e ne ho preso il posto. Come l’ho fatto? Con il potere della persuasione, con l’ineffabilità delle mie parole. Guardate, credere in ciò che dico è più facile per voi che per me. Posso convincervi di qualcosa che tra ventiquattr’ore sarà letteralmente smentito dai fatti.

Ho vinto. Dirà qualcuno che mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto. Ma il titolo al Lille resterà nella storia, così come il mio nome scritto accanto nell’albo d’oro. E continuo a guardarmelo, la sera, prima di andare a dormire. Perché mi ricorda cosa ero, cosa ho fatto, cosa sono in grado di fare.

Poi ho conosciuto l’Italia. Un paese diverso, ma che ho sentito subito affine alle mie ambizioni. Mi sono guadagnato i titoli dei giornali; Totti mi adorava, e a Roma Totti è un passepartout per entrare nelle grazie di una città intera. Con Roma è cominciata la mia nuova vita. Il calcio è diventato un mezzo per vivere bene.

Il mozzicone spento cade in un posacenere di fortuna, ricavato da un bicchiere offertogli da un cronista di lungo corso, seduto in prima fila ed ammaliato da una confessione a cuore aperto.

Il calcio che dura un anno, quello fatto di pianificazione, di allenamenti serrati, di aggiornamenti continui, mi sta sulle balle. Ho imparato che sono fatto per le emozioni, per le sensazioni forti, per i conflitti. Strano a dirsi, direte voi; mi avete accolto come si fa con gli intellettuali in visita per eventi culturali. E ve ne ringrazio. Adoro la dimensione estetica fuori dal campo. Adoro le prime pagine, le interviste biografiche. Vivo per questo.

A Roma sono tornato quest’estate. Ho fiutato la possibilità di tornare in auge. E mi sono ritrovato a cena con Aurelio, le President. Abbiamo cenato bene, in un ristorante accanto a via XXIV maggio, dove mi sono fatto trovare, proprio quella sera. Abbiamo bevuto, abbiamo chiaccherato fino all’alba.

L’ho stregato. Le President voleva parlare di moduli, di 433, di bellezza. Ho finto interesse. A me interessava solo una cosa; mostrarmi interessato il giusto, dare la sensazione di poterne fare a meno, anche se il vecchio fuoco dentro di me spingeva per poter allenare una squadra piena di fenomeni, che aveva vinto e incantato l’Europa, allenata da quello lì.

Quel Luciano Spalletti, la mia nemesi, che mi ha rubato la panchina a Roma e che ha offuscato la mia legacy, la mia eredità in quella piazza.

La manovra di avvicinamento con il Napoli aveva sortito gli effetti sperati. Due giorni dopo venivo annunciato come allenatore. Io, dopo anni in cui avevo sperimentato la noia, tornato nel calcio che conta, ad allenare una squadra iridata e con milioni di tifosi pronti ad inneggiare al mio nome.

Ce l’avevo fatta. Ho raggiunto il mio obiettivo. Rientrare dalla porta principale in un calcio che aveva dimenticato i miei fallimenti.

E adesso sono qui. Davanti a voi che mi chiedete conto delle brutte prestazioni, del perché non giochi Tizio, perché sostituisca Caio, del perché Sempronio non tiri più.

Cosa posso rispondervi? Avete ragione voi. Ma non mi interessa.

Badate, se per voi è più importante fare qualche risultato con le idee di chi mi ha preceduto, avete sbagliato. Io sono qui, e lo dico, nel segno della discontinuità. Perché la vita è fatta dagli uomini, dalle loro emozioni, dai loro sentimenti.

Se mi chiedete perché ho cambiato la difesa sulle palle inattive, perché lanciamo il pallone in lungo, perché corriamo di meno e copriamo distanze più lunghe, la risposta è una sola: perché a me non interessa nulla. A me interessa lasciare un segno. E se anche fosse negativo, avrò il merito di essere ricordato per questo, non per aver ereditato un lavoro già fatto da altri.

Nel silenzio generale, Rudi Garcia si versa un bicchiere d’acqua. Dei giornalisti a seguito, nessuno si sente di prendere parola. Solo un giornalista portoghese, con traduttore al seguito, si alza e chiede: ‘Conosce lo Sporting Braga? Cosa teme? Come ha preparato la partita?’

Non ho tempo per guardare le altre squadre, ci sono miei collaboratori che lo fanno. Ho altro a cui dedicarmi.

Di fronte a questa risposta, un giornalista napoletano si alza e furiosamente chiede: ma lei teme l’esonero? Si rende conto di quello che ha detto?

Io non temo nessuno. Dovessi essere cacciato, avrei in ogni caso scritto una pagina di storia.

E si alza, Napoleone e Le Figaro sotto al braccio. Diretto verso il campo.