Spalletti è un uomo dall'animo procace, d'audace intelletto e culla il destino con il prestigio dell'esperienza, evoca spesso immagini difficilmente identificabili, convoca la poesia e ne fa un mantra che non immarcisce neanche col tempo, sfidando se stesso con retorico ottimismo.


L'UOMO A CUI NON DEVI CHIEDERE MA DOMANDARE

Il verbo di Spalletti è prolisso, quasi pletorico, perciò spesso sussurrato, ma con le persone che gli stanno a cuore, altisonante. Nel suo linguaggio, lento, elaborato, forse fin troppo fintamente ragionato, con la selezione accurata delle parole, come scegliesse i lemmi con la medesima perizia con cui sceglie le olive più verdi dai teli per la premitura, c'è tutto un pitagorico sistema di strumentalizzazione delle questioni e delle domande, per far sì che alcune interpellazioni e considerazioni le riponga a se stesso secondo i suoi criteri di veridicità e assolutezza.

Nelle psichedeliche conferenze stampa o nelle interviste fiume, la prossemica del mister adesca dall'attorialità insita nel suo modo di fare che lo fa guardare in telecamera meglio di quanto guardi negl'occhi, in quel superfluo sviscerare argomenti e temi, ribaltare la trattazione e con algidia quasi perfida, portare i dialoghi dove ritiene sia giusto sviarli o condurli, non solo verbalmente ma come intendimento generale degli eventi che riguardano la sua squadra, il Napoli. Così prende la responsabilità e cavalca i sentimenti di tutti, amici e nemici.

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È con la smania di voler essere nell'apparire che Spalletti afferma la sua essenza, che si sintetizza anche nell'introspezione in 'io soltanto conosco le cose che mi riguardano, ma a voi tocca giudicare solo quello che io decido che debba esser evidenziato positivamente' perché difendere la squadra e i propri valori è la vera battaglia mediatica che egli vuole vincere. Con il risultato annesso poi surclassa tutto.

Le sue frasi pronunciate con diapason vocale fermissimo, sono sovrabbondanti di locuzioni avverbiali, cariche di metafore e a volte anche di sinestesie, come quelle di chi sta parlando incantato davanti ad un tramonto, pur essendo uno che va in campagna all'alba.

Reazioni mai banali e pareri netti fanno di Spalletti un comunicatore navigato che cassa in toto qualsiasi giudizio ingeneroso sui suoi giocatori e sul suo operato nel corso delle partite, sebbene ne motivi le scelte che appaiono sempre plausibili.

La meditizzazione del calcio, vivisezionato nei suoi interpreti in campo, fa vivere Spalletti sul filo del rasoio tra l'analisi disincantata e la simulazione della stessa, perché capisce che qualcuno l'ha già fatto attraverso occhi artificiali. Per questo ha cercato sempre il posto dove sentirsi protagonista tout court.

Nello spaccato antropologico Napoletano, Spalletti ha trovato il luogo dell'anima che stava cercando nei gironi infernali della sua vita, dove il calcio Italiano gli aveva concesso successi e stima effimera a dispetto di una ribalta per altri temi, nel quale riversare linfa vitale, che nel pallone trova sempre rigenerazione.

IL SOGNO DI UNA CITTÀ FATTO SUO

A Napoli la squadra è per i tifosi il film della propria esistenza e Spalletti è stato senza adombramenti di sorta, il front man dello sceneggiato encomiastico, srotolando la filigrana dell'ultimo biennio. Vincendo lo scudetto, ha chiuso il cerchio, personale, della squadra e della sua gente ma soprattutto ha dato natura sensibile ai sogni plastici che talvolta risultano realizzabili solo in universi paralleli e nell'industria dei media sportivi sembrano sempre la retrodatazione di ciò che non è ancora successo.

A Spalletti, anche se non lo dirà mai, le pressioni di Napoli sono piaciute profondamente. Quasi se l'è cercate, con quel carattere apparentemente spigoloso e proletario, ma era la contaminazione culturale che voleva a tutti i costi, sentirsi uno dei napoletani senza averne la veracità, specchiandosi nel sentimento tellurico del popolo, che riversa nel calcio frustrazioni e passioni all'estremo dei comportamenti. Si è spinto fino a conversare face to face con le frange accese del tifo per difendere i suoi ragazzi e incitare al sostegno incondizionato per raggiungere gli obiettivi prefissati.

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Vi è il tema campale dell'assenza dello scudetto per almeno due generazioni di ragazzi, che avevano un sogno nel cuore, percepito nelle proprie aritmie da Spalletti nei due anni di riposo dal calcio prima dell'approdo nel club di De Laurentiis con il quale ha intrattenuto una relazione lavorativa schietta e semi burrascosa.

Trovando un alterego astratto a Maradona, unico e solo, il quale disse al suo arrivo che nell'immaginario collettivo voleva diventare l'idolo dei ragazzi poveri di Napoli perché gli ricordavano egli da piccolo, Luciano nello scegliere di allenare il Napoli aveva la volontà di diventare fautore di un sogno che aveva capito poter essere anche suo. Perché il cuore non ha ragioni né regioni.

Sapeva tutto sin dall'inizio Luciano, che nel tour dell'anima, introdotto alla stampa nell'esordio a Castel Volturno, millantava la voglia d'immergersi nella Napoli vista dalla finestrella del tempo e magari in TV nella suite del bosco verticale milanese oppure proiettata a parete nella rimessa campagnola di Montaione. Luciano ha sognato di vincere lo scudetto a Napoli senza essere la squadra più forte (da cui le pettorine con la frase del coro-icona "sarò con te e tu non devi mollare" da completare), ma non sapeva cosa vuol dire davvero essere dentro quel coro.

Così Spalletti ha cominciato ad identificarsi nei principi culturali ed anche dialettici della città che lo ha assorbito come un vortice, tra emozioni, presagi e accettazioni, provando e riuscendo a dominare gli eventi senza esserne succube e lasciarsi sbranare dalla critica, mai dolce di sangue da queste parti.

IL PERCORSO A OSTACOLI ABBATTUTI

Lo ha immediatamente recepito come concetto, quando ha inanellato 9 vittorie su 10 all'inizio del primo campionato per poi trovare intoppi e mugugni alle prime defaiances che cancellano il fulgore e l'entusiasmo, perdendo contro Empoli e Spezia in casa senza ne segnare né subire tiri in porta. O quando ha dovuto affrontare e patire lo scotto dell'eliminazione in Europa League da un Barcellona imbottito di nuovi talenti e campioni degradanti, sfigurando per non voler accettare l'inferiorità.

Fino a quando la squadra, in piena bagarre scudetto, lo ha deluso deponendo le armi nelle partite decisive contro Fiorentina, Empoli e Roma ed ha dovuto imbracciare la responsabilità dell'accaduto, rimostrare senso del dovere e attaccamento al lavoro indicendo un ritiro mai avallato fino in fondo, per poi difendere a spada tratta il rendimento dei suoi 'professionisti' lodevoli ugualmente di un campionato ottimo e ben giocato.

La diaspora estiva, comprensibile, ha dato a Spalletti l'occasione di scavare ancor più in profondità la sua forza di volontà e d'ingegno passando sulle asperità del percorso, pretendendo di compiersi come allenatore dove nessuno ha saputo, secondo la sua prosaica deontologia professionale in cui gli uomini forti hanno destini forti: più le cose si rendevano difficili e indecifrabili e più Luciano si cimentava nell'impresa di fare delle rinnovate motivazioni e dei nuovi calciatori il sistema copernicano di una vittoria in cui credeva solo lui, e nessun altro.

L'annata 22/23 ha spezzato tutte le corna a chi voleva infilarle nel garrese azzurro. Di Lorenzo, eletto capitano, diventa un prolungamento del suo pensiero in campo e un esempio di comportamenti. A Firenze, stadio a lui familiare, affronta di petto un tifoso ruggendogli orgoglio in faccia. Manda la squadra a salutare con la ola tutti i settori dopo ogni vittoria. A Novembre il Napoli risulta per distacco la miglior squadra d'Europa (Champions League) e d'Italia, inanellando vittorie convincenti, proponendo un gioco fluido, tecnico, ricercato, spettacolare e a tratti sopraffine, reo di annichilire le principali caratteristiche degli avversari. La pausa mondiale lo tiene sospeso per due mesi ad evitare i carboni ardenti di chi lo vuole vedere soccombente a fine stagione. Ma nel nuovo anno sboccia il bulbo di passione pura.

DESTINO TATUATO

Il pubblico e tutta la gente di Napoli s'è persa nell'amore per il Napoli di Spalletti, che ha inventato espressioni tattiche nuove e ha lasciato sul campo tutto quello che aveva e anche di più. Così a Marzo mentre il tecnico di Certaldo si auto investiva di una napoletanità acquisita (innata), succinta e signorile, la città si preparava alla festa del secolo, consci che quei ragazzi aitanti e fenomenali che stavano imbarazzando la Serie A e l'Europa che conta, senza di lui non sarebbero riusciti in tale impresa; avvenuta anche per merito della forgiatura del gruppo con valori cardinali dello sport di squadra: unione, rispetto e cultura del lavoro. Da qui, in queste fonti che sgorgano dal passato, nasce il tatuaggio del terzo scudetto di sua ideazione, assommato ai nomi dei tre figli, come le cose che gli appartengono da sempre, senza averlo chiesto.

Spalletti si è tatuato lo scudetto del Napoli su un braccio e il nome dei tre figli sull'altro

Tanto lavoro tra campo e tabulati, militaresco, ossequioso, totalizzante e anche isolante, immerso in ambienti quasi monotoni, che ha logorato la mente e il fisico forte e lo avrà indotto a pensare alla caducità della vita. Poi il nodo contrattuale della permanenza opzionale, che fa il pari con quelli dell'anima. Veni vidi vici gli avevano insegnato a Roma. Così ha fatto e ha conquistato la città dei mille colori, dove ora sgargiano i tre dello scudetto.

Ecco perché il testamento Spallettiano di crederci quando nessuno ci crede si confeziona come una bomboniera nell'aforisma americano che onora il progetto di De Laurentiis nel mondo, cioè che "Napoli non è più una città con una squadra di calcio, ma una squadra di calcio con una città". Quella squadra è di Luciano Spalletti, l'uomo del destino.