Il Napoli si riscopre umano al cospetto di una Lazio premiata ben oltre i propri meriti, con un Sarri lontano anni luce dal tecnico che chiedeva la sfrontatezza delle “undici facce di cazzo” disposte a palleggiare in faccia al Manchester City di Guardiola. Ma se la sconfitta non ridimensiona lo straordinario cammino degli uomini di Spalletti, regalando alle inseguitrici solo un turno di illusoria speranza è dagli spalti di un Maradona gremito che si consuma una clamorosa debacle del tifo.

Non ci interessano le motivazioni che hanno portato ad una serata in cui poche centinaia di aficionados biancocelesti hanno riempito con la propria voce e il loro entusiasmo quello che un tempo era il caldo catino di Fuorigrotta, perchè quella di venerdì è stata solo l'ennesima conferma di un tifo che ormai ha perso la propria identità e che da anni non viaggia più di pari passo con la SSC Napoli.

Che il mondo del cosiddetto tifo organizzato sia autoreferenziale non lo scopriamo di certo oggi, chi come il sottoscritto frequenta gli stadi da oltre 20 anni ha assistito ad un lento, ma inesorabile, cambio di rotta da parte dei “gruppi” che da simbolo di aggregazione hanno deciso di ergersi, in maniera presuntuosa e dispotica, al di sopra dell'intera tifoseria partenopea, costruendo un'invisibile barriera che ha dilatato le distanze tra pubblico e squadra. Non preoccupandosi più di coinvolgere lo stadio e trasformarsi nel dodicesimo uomo in campo, ma unicamente di celebrare il proprio ego in patetiche manifestazioni esclusive.

Per anni si sono nascosti dietro l'insoddisfazione di una piazza che reclama il primato sportivo manco fosse qualcosa di dovuto, millantando indicibili “sacrifici” e schierandosi apertamente contro una proprietà che sin da subito aveva deciso di tagliare i ponti con chi aveva fatto dell'ultras un mestiere poco nobile che lucrava in maniera poco pulita, per non dire criminale, sulla passione del popolo partenopeo. Ed ora che la squadra viaggia spedita verso un insperato e quanto mai atteso successo, vivono giorni di smarrimento, schiacciati dalle parole al vetriolo rovesciate per oltre un decennio.

Anni passati in trincea, come soldati fantasma giapponesi che si rifiutavano di credere che la guerra fosse finita, incapaci non solo di vivere la meravigliosa realtà che li circonda, ma di godere dello straordinario viaggio che ci ha condotti fino a questo punto. Mano a mano il terreno su cui erano convinti di aver piantato solide fondamenta si è sgretolato, mettendo a nudo fragili fondamenta, erose da una salmastra passione che oggi rischia di far crollare aleatorie convinzioni. Impietosi i confronti con altre realtà, non ultima la lezione impartita in Germania dalla tifoseria di Francoforte. Con gli ultras azzurri che non hanno trovato di meglio che una scazzottata nel proprio settore, in una triste rivisitazione della Battle Royal nel wrestling.

Ma a Napoli non è solo il tifo da stadio a deludere, bensì l'intero ambiente, con un avvilente susseguirsi di episodi che non sono altro che la copia sbiadita e malriuscita di sprazzi folcloristici che hanno segnato i nostri ricordi. Ed ecco che ad Osimhen vengono dedicate nell'ordine torte, pizze, caffè, gelati, noci, nucelle e castagne 'nfurnate, il tutto via social e pubblicizzando la propria attività o la propria smania di apparire.

Perchè se 36 anni fa la città esplose in genuine manifestazioni di napoletanità, riversando per le strade, i vicoli e i bassi un'incontenibile euforia impregnata di simboli veraci, oggi assistiamo ad una volgare proposta stereotipa di costumi e tradizioni che non rappresentano Napoli, ma solo l'immagine di chi da fuori ci vuol vedere in questo modo.

E non ne faccio un discorso scaramantico, ma in questo si denota un certo disagio sociale, il bisogno di affermare la propria presenza attraverso la banalizzazione di un evento che rientra nello “straordinario”, per una squadra che in 96 anni si è vista accomodare sul gradino più alto soltanto due volte. Ecco, non solo si festeggia qualcosa di non acquisito, ma lo si fa in maniera grossolana, pari allo stile degli influencer nostrani e tanti saluti agli omonimi Luciano e Eduardo.

Ecco dunque il popolino che sale alla ribalta, che si appropria di qualcosa che in fondo non merita, per il quale non ha sofferto e lottato spalla a spalla con una società da sempre accusata di non voler vincere, per il semplice fatto di aver perseguito il risultato attraverso valori di etica sportiva e finanziaria ai più sconosciuta.

Napoli avrà quindi nuovi eroi, riaccendendo dopo oltre tre decenni quell'azzurro ormai sbiadito che colora la città, rinnegando in un certo senso se stessa in nome di una reinterpretazione 3.0 della festa che fu, con buona pace degli A16 e di chi si è riscoperto tifoso negli ultimi mesi, nel più classico “scurdammece 'o passato simmo 'e Napule paisà”.