Il Napoli ha peccato di improvvisazione
Faciloneria, dilettantismo, ma anche: svolgimento o esecuzione che si realizza con facilità e immediatezza inventiva.
Queste sono – più o meno – le due definizioni corrispondenti al termine: improvvisazione.
Com'è intuibile, alla stessa parola corrispondono due interpretazioni completamente differenti. Da un lato c’è la capacità di sapersi trarre d’impaccio in una situazione inaspettata, di solito facendo ricorso alla creatività.
Dall’altro invece si intende un modo approssimativo, superficiale nel gestire la medesima situazione.
Improvvisazione, dunque, non è sempre un male, non è sempre un bene. Dipende.
A volte l’improvvisazione diventa proprio l’elemento mancante di un puzzle che apparentemente ha il significato opposto: programmazione. Il tocco di classe, estemporaneo, che dà l’originalità ad un piatto buono rendendolo unico.
Il Napoli, spesso nella persona del suo presidente, ha saputo mescolare sapientemente queste due caratteristiche. Pensiamo a Sarri, non fu frutto di programmazione il suo ingaggio – ricordiamo tutti che il prescelto era il compianto Sinisa Mihajlovic – ma ADL seppe cogliere l’occasione che gli offrì la sorte, andando a prendere quel rozzo toscano che poi creò una delle migliori squadre italiane dell’ultimo ventennio.
Il successore di Sarri, Ancelotti, non fu una scelta programmata, ma frutto dell’improvvisata reazione di pancia di ADL al grande rifiuto di Maurizio. La scelta di Re Carlo, con il senno di poi, non fu indovinata, anche perché le sue richieste non vennero assecondate, ma non si può negare che avesse una sua ragion d’essere.
Tanti altri esempi possono essere fatti: la scelta di Gattuso dopo Ancelotti? Sicuramente improvvisata, per sua natura, così come la scelta di esonerare Carlo stesso.
Ripetiamolo dunque: il problema non è l’improvvisazione in sé – che si può considerare persino una virtù – ma lo diventa quando essa è perpetrata senza una visione alla base. Un’idea.
Il mercato del Napoli di quest’anno ha peccato di improvvisazione, non perché le scelte siano state estemporanee, bensì per il fatto che esse fossero prive di senso logico.
Per quanto non si possano concedere troppe attenuanti alla dirigenza del Napoli sul fatto di essersi ritrovata senza allenatore e direttore sportivo a giugno, il principale problema non è averli persi, ma il criterio con il quale sono stati rimpiazzati. Nessun colpo di genio, nessuna “aragosta pescata dal water”, come amano dire i detrattori di De Laurentiis, ma due scommesse – diciamolo chiaramente – perse in partenza, ma proprio perché della scommessa non avevano e non hanno nulla, a partire dalla credibilità agli occhi della squadra. Credibilità che, nel caso specifico dell'allenatore, è fornita o da un robusto CV (Ancelotti, Benitez) o da un'idea di gioco storicamente convincente (Sarri, Spalletti).
Stesso discorso per il famigerato vuoto della difesa centrale. Il problema non è aver perso Kim, il cui rimpiazzo poteva essere – quello sì – programmato da tempo, ma l’averlo rimpiazzato con una ricerca improvvisata che è spaziata dal credere di avere in pugno un difensore dal profilo europeo, fino all’andare a pescare un nome privo attualmente di ogni garanzia: tecnica, tattica e fisica.
Potremmo continuare con il rinnovo, ad oggi non ancora arrivato di Osimhen, o quello di Zielinski – rimasto perché l’improvvisare una convivenza tra lui e Veiga era incompatibile agli occhi del Napoli – o con le permanenze di Demme e Gaetano, fino all’improvvisa titolarità di Juan Jesus che non giocava 5 partite consecutive dal 2020.
Tanti, forse troppi aspetti, sui quali il Napoli si è trovato costretto ad improvvisare soluzioni e si è ritrovato con darsi soluzioni improvvisate.
Questa disamina può risultare spietata, specie se rapportata a dei risultati che tutto sommato, sono ancora in linea con gli obiettivi, ma la Storia – anche quella del calcio – non aspetta chi non è capace di improvvisare.