Caro Luciano, è stato bellissimo, ma adesso copriti
Le prime immagini in campo di Luciano Spalletti da Ct della Nazionale italiana sono già iconiche. Manica su, manica giù. Qualcuno aveva notato che, rispetto ai trenta gradi di Coverciano, la giacca a vento fosse decisamente fuori stagione. E che, forse, la scelta di indossarla fosse stata imposta, al fine di nascondere lo scudetto con il tre che sbuca dall’avambraccio. Il tecnico ha risposto tirandosi su le maniche, il giorno successivo. Senza rinunciare alla giacca, però, nonostante i trenta gradi perpetui.
È la regola della domanda e dell’offerta. E se la domanda non c’è, la si crea: indossando la giacca con trenta gradi e alla prima insinuazione (domanda), si sfoggia il tatuaggio (offerta). Un giochino vecchio come il mondo. Perché la comunicazione più efficace resta quella basata sulla manipolazione.
In una delle ultime conferenze da allenatore del Napoli, Spalletti spiegò che i suoi incontri con la stampa richiedevano ore di preparazione e che a prescindere dalle domande ricevute, il modo per lanciare i suoi messaggi lo avrebbe trovato comunque, attraverso una parabola o attraverso un gancio metaforico. Insomma, Luciano non lascia nulla al caso. Neanche una giacca a vento con 30 gradi all’ombra.
Napoli e i suoi fantasmi
Trentatré anni per vincere nuovamente uno scudetto. Novantasette, per vincerne uno senza Maradona.
Un dono di Dio, Diego. La cosa più bella accaduta su un campo di pallone. Talmente immenso da diventare, però, anche una condanna. Un fantasma che regna sul passato, rubando speranze al futuro. Obbligando a vivere nel ricordo e nella nostalgia un intero popolo calcistico, ormai convinto di essere destinato all’irripetibilità.
Lo scudetto delle prime volte
Trentatré anni sono troppi. Una generazione e mezzo. Novantasette: almeno sei. Per molti, il terzo scudetto è stata la prima volta. Per altri, escluso Diego, anche.
È stata la prima volta per ogni componente del club (Tommaso Starace escluso). È stata la prima volta anche per Luciano Spalletti, che ha deciso di stamparselo sul braccio, prima di rinunciare a ripetersi. Le motivazioni dietro la sua scelta “le conosce solo lui”, ha commentato recentemente Aurelio De Laurentiis. E neanche in queste righe c’è spazio per le psicoanalisi.
È stato bellissimo. Un viaggio con panorami mozzafiato che sbucavano a ogni curva. Fantastico, ma è finito. E la fine, così come è avvenuta, ha lasciato al popolo azzurro, ancora una volta, il retrogusto amaro dell’irripetibilità. Una sensazione che spiana la strada all’insicurezza, alla paura di essere destinati a rappresentare comunque e sempre l’eccezione. Tanto da essere rifiutati “per troppo amore”.
Napoli ha bisogno di ricostruire nuove speranze. Nuove ambizioni. Nuovi eroi. Per farlo deve isolarsi dal passato e non ricadere nelle accoglienti braccia della nostalgia. Ancor peggio se tatuate.
Sì Luciano, è vero, è stato bellissimo, ma ora copriti. Ci hai raccontato che il tatuaggio lo hai fatto per te, ma sembra che sia più per le telecamere. Non devi convincerci di nulla. Ci basta lo scudetto che hai contribuito a conquistare. Quello sul braccio è affare tuo. Vederlo sovraesposto, in questo momento, con il cuore ancora caldo, non aiuta.
Se ci tieni a Napoli rivestiti. Siamo ancora fragili. Non siamo ancora in grado di gestire le emozioni. Abbiamo bisogno di futuro e convivere con i fantasmi del passato, per quanto rassicurante sia, non aiuta.