"Juve Merda" - Un racconto di fantasia che attinge dal reale
Abbiamo scoperto l'ideatore di quello striscione dalla violenza inaudita

La merda è un problema teologico più arduo del problema del male. Dio ha dato all’uomo la libertà e quindi, in fin dei conti, possiamo ammettere che egli non sia responsabile dei crimini perpetrati dall’umanità. Ma la responsabilità della merda pesa interamente su colui che ha creato l’uomo.
Milan Kundera - L'insostenibile leggerezza dell'essere
IL DOLORE DI UN PADRE
“Juve Merda”
Era questo il capo d’accusa, il rito era stato abbreviato ed immediato – era doveroso, data la gravità dell’atto – e adesso Salvatore, per gli amici Sasi, si era ritrovato in uniforme arancione, all'intero di un carcere, a scontare la pena comminatagli, in attesa dell'ultimo grado di giudizio. Suo padre, Antonio, gli era di fronte e in piedi, con volto contrito e abito elegante.
«Papà, sei venuto qui per farmi la predica?» esordì Sasi prendendo l'interfono. Il padre si era appena seduto al di là di quella vetrata che faceva tanto film poliziesco americano e che ora separava un padre e un figlio in due mondi diversi: quello del saper vivere in modo civile dalla cruda inciviltà.
«Volevo soltanto sapere come stai», gli rispose Antonio, stirandosi la cravatta con le mani, era un gesto che soleva fare quando si sentiva nervoso o preoccupato.
«Come vuoi che stia?» Rispose Sasi, allargando le braccia ad evidenziare in modo plateale l’uniforme che aveva indosso, sciatta e dai colori accesi, in perfetta antitesi con il vestito del genitore.
«Con chi sei in cella?» Chiese di rimando Antonio.
Sasi si lasciò andare ad un sorriso beffardo
«Sai, non è che qui ci siano buoni partiti. Siamo tutti persone poco raccomandabili» allontanando per un attimo l’interfono dalla bocca.
«Avanti, dimmi» tagliò corto Antonio, non voleva prolungare quell’agonia.
Sasi sbuffò, poi avvicinò di nuovo la bocca all’interfono e rispose.
«Siamo in tre. Uno degli altri due ha fatto una cosa simile alla mia…»
«Oh mio Dio», esclamò Antonio, lisciandosi nuovamente la cravatta.
«Vuoi saperlo?»
«Sì, anche se mi spaventa, devo sapere con chi divide mio figlio quei pochi metri quadri»
«Ok, lo hai voluto tu», Sasi fece una pausa teatrale, poi tutto d’un fiato, senza avere il coraggio di guardare il padre negli occhi, si liberò: «Siamo in tre, dicevo, oltre me c’è un tizio che, una volta, all’autodromo di Monza, ha esposto uno striscione “Ferrari merda”»
«Oh mio Dio» Antonio non seppe far altro che ripetere quell'esclamazione.
«Già, e l’altro invece…»
«L’altro che ha fatto?»
«Preferirei non dirtelo»
«Ti prego, Sasi»
«Beh, ecco, ha urlato una bestemmia».
Il padre si ritrasse di scatto dal vetro divisorio, come se quell’esclamazione violenta lo avesse colpito nel corpo, oltre che nell’animo. Poi, sottovoce, bestemmiò a sua volta, ma con classe, prima di riparlare.
«Ti rendi conto che, per quanto gravissimi i loro gesti, nulla è paragonabile a ciò che hai fatto tu?»
«Lo so»
LE DOMANDE DI UN PADRE
«Ma come è possibile scrivere Juve Merda? Come ti è saltato in mente? Un brand del genere, un club storico, il lustro dell’Italia!» Sasi seppe rispondere solo con un’alzata di braccia.
«Farò reclamo! Non è possibile che tu debba espiare così la tua pena. È troppo pericoloso. Ci deve essere un modo non dico per farti uscire – so che è impossibile data la gravità di ciò che hai fatto – ma quantomeno farti trasferire di cella!»
«Papà…»
«No, ascolta, posso parlare con quel mio amico giudice».
«Chi? Quello di Napoli?»
«Esattamente, il terremotato, proprio lui».
«Ma lo sai che i napoletani sono solo dei Pulcinella e per il resto non sono buoni a nulla».
«Certo che lo so, lo sanno tutti. Ma sono anche bravissimi anche a fare le vittime. Sono i paladini del vittimismo! Se solo avessi insultato loro, come hai sempre fatto…»
A quell’ultima frase pronunciata da Antonio, Sasi si lasciò invadere da un ricordo nostalgico che gli allargò la bocca fino a disegnargli sul volto un leggero sorriso. Antonio lo colse e capì l’origine di quel sorriso.

«Lavali, lavali, lavali col fuoco, oh Vesuvio, lavali col Fuoco!» Si ritrovarono entrambi, coi volti congestionati dall’entusiasmo, ad urlare quel coro che tante volte avevano urlato, padre e figlio, uniti da un solido sentimento. Per un attimo dimenticarono il luogo in cui si trovavano, ma durò un attimo. Fu Sasi il primo a voltarsi alle proprie spalle, dove stava la guardia carceraria. Temeva un rimbrotto per aver alzato troppo la voce, ma la guardia invece gli restituì un indulgente sorriso e, giungendo le mani a cuoricino, disegnò con le labbra una frase inequivocabile – storica – che Sasi lesse all’istante: Napoli Colera. Certe emozioni erano universali, travalicavano anche quelle barriere così imponenti tra guardie e detenuti. Era una questione d’onore.
«Ti ricordi quando da piccolo andavamo allo stadio e urlavamo Merda! ad ogni rinvio del portiere?» gli chiese Antonio, ormai preda dei ricordi.
«Sì, una volta quel negro si girò pure per farci un gestaccio» replicò Sasi sorridendo nuovamente, «quella scimmia si beccò pure un rosso perché aveva osato reagire…»
«E quella volta che per errore confondemmo i Campi Flegrei col Vesuvio? Te lo ricordi?»
«Certo che sì, come potrei dimenticarlo, ma poi chi ca**o se ne fotteva di quale vulcano esplodesse» aggiunse ridendo Sasi.
«Ma sì, bastava un’eruzione, pure piccolina, per renderci felici» disse Antonio, prima di incupirsi.
«Che c’è, papà? »
«Dove ho sbagliato con te, figliolo, non capisco».
«Papà, non ricominciare»
«No, davvero» Antonio si infervorò parlando ad alta voce all’interfono, «hai avuto tutto, una famiglia solida, un’ottima educazione fatta di sano razzismo, basato sulla territorialità, sul colore della pelle, sull’augurare sempre e soltanto le cose peggiori a chi è diverso da noi in base ai nostri criteri di diversità, abbiamo sempre usato il peggio delle tragedie altrui come arma di offesa, insomma: abbiamo imparato insieme tutti i capisaldi del vivere civile e tu mi hai tradito così».
«Papà, non so spiegarmelo nemmeno io quello che è accaduto. Forse volevo rovinare una cosa bella».
«Come hai potuto? La Juve, renditi conto. La Juventus! Merda poi. Che orribile parola. Puoi dire a un uomo di essere una merda, ma non alla Juve. Non così. Avresti dovuto ribellarti a quei tuoi amici che te l’avevano proposto. Napoletani?»
«Ma no, non scherzare».
«Lo sai che a tua madre non le ho ancora detto nulla? Ho dovuto mentirle».
«Cosa le hai detto?»
«Che c’è stato un errore giudiziario, che non potevi essere tu, che tu sei sempre il solito ragazzo che esibiva gli striscioni quando volo penso al Toro oppure Napoli Colera sei la vergogna dell’Italia intera. Lei è parsa rasserenarsi, ma forse è ciò che ha voluto farmi credere, porco D*o».
«Dille che andrà tutto bene»
«Non so se posso mentirle fino a questo punto. Posso voltarmi dall’altra parte quando lei mi chiederà ulteriori spiegazioni, questo sì. Come vorrei l’avesse fatto anche il giudice con te».
Non potevamo farlo sparire quello striscione, non è mica un audio Var, dai papà».
«Lo so, Napoli merda, lo so». Antonio, quando non sapeva più a che santo appellarsi, si rifugiava in esclamazioni che lo tirassero su, la sua isola felice. «Non è possibile, lo capisco».
LA SPERANZA DI UN MONDO MIGLIORE
L’ora di colloquio era passata. La guardia si avvicinò al detenuto. Sasi la guardò, poi guardò Antonio con uno sguardo dolce, prima di posare delicatamente l’interfono.
Antonio non disse più nulla, si limitò a lisciarsi nuovamente la cravatta mentre guardava il figlio alzarsi e allontanarsi, senza sapere se lo avrebbe mai più rivisto.
Si allontanò in silenzio dal carcere, pensando al figlio in maniera speranzosa: dopotutto è vero che Sasi aveva commesso uno sbaglio, e per questo il Paese lo aveva punito con equità e giusta severità. Allo stesso modo, però, lo Stato avrebbe saputo rieducarlo. Che bella l'Itali, pensò.
Se solo non ci fossero i napoletani. E i negri. E i terremotati. E i meridionali. E gli immigrati. E i cinesi. E i poveri. E i disabili. E tutti gli altri. Tutti gli altri. Tranne gli italiani.