Se oggi il Napoli è primo in classifica, con un netto e rassicurante vantaggio dalle dirette aspiranti al titolo, va dato merito al un collettivo che, senza troppi pregiudizi, ha saputo sfruttare al meglio le peculiarità di ogni singolo elemento. Per molti, uno fra tutti è Victor Osimhen. Il Nigeriano, dai vissuti tra sofferenze e sacrifici, oggi domina la classifica di goleador in un campionato considerato tra i più complessi del pianeta. Eppure, tra le strade e nei quartieri, si percepisce ancora una incompiuta soddisfazione per questo stimabile giocatore. Io mi ritengo uno di loro.

Per questo motivo noi di Napoli Network abbiamo voluto rappresentare le due facce della medaglia perché la libera opinione, nel rispetto delle regole, è una nostra caratteristica e attitudine.

Ed è così che girando la medaglia notiamo le differenze.

Testa, di Mario Marchitelli

Amo Victor perché la sua storia narra di un bambino, orfano di madre, costretto a vendere bottigliette d’acqua per sopravvivere e che, nella grande discarica a cielo aperto di Lagos e tra le montagne di sporcizia, ricercava scarpe da calcio; quando ne recuperava un paio da rattoppare, sognava una vita migliore, provando ad emulare il suo idolo Drogba.

Amo Victor per la sua voglia di migliorarsi, per la sua fame. Quella che a soli 18 anni lo ha portato ad inseguire il suo sogno nella fredda Sassonia, passando per il Belgio prima di farsi conoscere al grande calcio nel Lille, con il quale esordisce in Champions League segnando due gol e attirando su di sé l’attenzione della Premier League.

Amo Victor perché per venire a Napoli ha rifiutato il Tottenham di Mourinho, perché a dispetto dell’età ha sempre avuto le idee chiare su quale fosse il percorso migliore per la sua crescita. Avrebbe potuto accettare un ricco contratto ed accontentarsi di essere un comprimario alle spalle di Kane, ma ha preferito la strada meno battuta, quella che lo ha portato alle pendici del Vesuvio.

Amo Victor per la sua generosità, per il suo essere un guerriero disposto a lasciare tutto in campo, anche a costo di rimetterci letteralmente la faccia. Riesco a vederlo anche adesso, uscire dal campo di San Siro con le sue gambe nonostante 20 fratture e l’occhio fuori dall’orbita. E come dimenticare quando al suo rientro, come un moderno eroe mascherato, contendeva ogni pallone incurante di tutto quello che aveva passato.

Amo Victor perché è sempre li a chiamare il pressing ai compagni, in un movimento continuo, instancabile. Per le emozioni che regala quando parte in progressione, le gambe di ebano che arano il terreno, il terrore dei difensori che non riescono a contenere il suo strapotere atletico. Lo sguardo attonito degli avversari quando sembra quasi librarsi nel cielo, come se il tempo si fermasse, prima di colpire di testa ad altezze da far ridimensionare il miglior CR7.

Amo Victor per la zampata con la quale in una calda giornata di agosto ha spento gli entusiasmi veronesi, per come si è involato verso la curva bergamasca resistendo alla carica di Demiral prima di servire a Elmas il pallone della vittoria, per il fendente mortifero con il quale ha zittito l’Olimpico e fatto esplodere lo spicchio azzurro e un’intera città.

Amo Victor perché quando gli hanno chiesto quale sia stato il gol più bello segnato da quando è a Napoli ha risposto: “Quello che ci farà vincere lo scudetto”. Perché quando tutti non lo ritenevano all’altezza del prezzo pagato per strapparlo alla concorrenza, quando per tutti era grezzo e non ancora pronto, quando c’era chi lo voleva mandare a scuola calcio perché “non sa stoppare”, non ha mai perso di mira il suo obiettivo, da quando era un ragazzino che sognava di diventare un calciatore, tra le baracche di Lagos, fino alla vetta della classifica cannonieri della Serie A: vincere.

Croce, di Mario Laperuta

Condivido il pensiero espresso nelle prime righe dal mio caro amico e compatisco - nel senso di “Cum Patior” - l’uomo calciatore, ma è di fatto che chiunque ha dei trascorsi da raccontare, che siano celebri o gente comune, la differenza è che la nostra storia, semplici terrestri, non verrà mai raccontata. Non l’ho citato prima per il rispetto di ciò che è stato ma per quanto asserito fino ad ora, anche io potrei dire di amare il mio caro Diego, ma questa è un'altra storia.

Sul suo passaggio in azzurro, ho due considerazioni da fare. La prima è che dietro ad una trattativa c’è sempre la mediazione di un procuratore che sicuramente sa far bene il suo gioco. 80 milioni, euro più euro meno, a mio avviso sono opinabili per un curriculum di sicuro rispetto ma non paragonabile, per analogia di valore, ad un certo Gonzalo Higuain. La seconda e chi sceglie Napoli lo fa perché Napoli è l’espressione naturale di fascino e bellezza, un connubio tra romanticismo e storia; la voglia di assaporare le emozioni di una platea che ha urlato per anni il nome di Diego e che oggi ha uno Stadio che intitola il suo nome.

Condivido sulla generosità, la disponibilità e la determinazione, quest’ultima caratteristica peculiare di ogni partita. Tuttavia, una miglior tecnica lo renderebbe un giocatore ancora più nitido, incisivo e determinante. La sua determinazione e tenacia a volte rischia di eccedere negli atteggiamenti, compromettendo quelle che sono le regole comportamentali. Aspetti istintivi e di certo in buona fede, ma che possono essere mal interpretati dagli arbitri, correndo il rischio di qualche giallo in più.

Sono assolutamente in sintonia, invece, per quanto riguarda l'imprevedibilità di Victor, perché spesso riesce a tirar fuori dal cilindro una magia inaspettata che, a mio avviso, salva il suo giudizio in pagella.

Lascio l'ultima considerazione senza esprimere l’altra faccia della medaglia perché, nonostante la diversità di opinione, mi piace condividere la semplicità e il pensiero vincente di un uomo, un professionista che, al contempo, resta anche un riferimento ben chiaro a tutti e, soprattutto, temuto da tutti, quanto basta per chi ha il cuore tinto di azzurro.