Sono le ore dell'attesa. Inutile nasconderlo, cercar di camuffare gli attimi, più o meno lunghi, in cui il pensiero va ai prossimi giorni. Come sarà quando la matematica farà il suo corso? Dove sarà rivolto il primo sguardo? La prima parola verso chi sarà detta? Tra cinquant'anni, ricorderemo le risposte a queste domande.

Nonno Mimì, tra guerra e Napoli

Come per tantissimi anni le ha ricordate nonno Mimì, andato via nel novembre pre covid mentre il Napoli era quasi sempre in balia degli avversari, dopo che anche lui, ultranovantenne, aveva accarezzato l'idea ed il sogno del 2018. Non è riuscito mai ad allontanarsi nonno Mimí, nonostante i continui litigi con nonna Maria, da quella maglia. Mai.

L'ho conosciuto nel 2012, serio, a tratti serissimo, col sorriso stampato sulle labbra che evocava tranquillità e serenità. Molto strano, per chi era stato prigioniero durante la seconda guerra mondiale e tornato a casa nel '45 con soli 38 kg di peso. Aveva vissuto l'inferno in Terra ed era lì, a quasi novant'anni, beato come qualcuno che sta seduto in riva al mare all'imbrunire.

Nel 2012 l'ho conosciuto, dicevo. Perché nonno Mimì in realtà non è mio nonno, ma il nonno di mia moglie. Ed io che mai avevo conosciuto i miei di nonni, andati via troppo presto, mi legai tanto. Perché poi i suoi racconti erano insegnamenti veri e puri di chi ne sa più di te e non te lo fa pesare. Mi diceva sempre che lui ha dovuto aspettare intorno ai cinquant'anni prima di vedere l'alieno argentino portare Napoli sul tetto d'Italia. Cinquant'anni. Non dieci. Nemmeno quindici. Neanche venti. Ma cinquanta.

Una vita intera fatta di soprusi calcistici, immensi dolori e pochissime gioie. Eppure nonno Mimí era sempre lì la domenica. A piedi da via Marina zona Sant'Erasmo al Collana. Sotto la pioggia o con il Sole. Chissà cosa avrebbe detto degli asedici! Me lo immagino lì seduto, intrufolato nella sua solita vestaglia grigia, a farsi solenni risate sulle macerie della incompetenza a salsa napoletana. Lui che ha varcato mille e passa volte le soglie degli stadi partenopei senza mai chiedere nulla in cambio. Lui che ha speso una vita prima di vedere quel "giorno". Lui che ricordava a novantacinque anni tutte le formazioni degli anni '50, '60 e '70 a memoria con addirittura annessi mercati estivi. Incredibile. Ogni volta sedevo a tavola con lui, il cellulare si faceva di fuoco per le ricerche su google per vedere se tutto ciò che ricordava corrispondesse a realtà. Corrispondeva perfettamente. Margine di errore nullo.

Il mestiere del tifoso è la pazienza

Questo scudetto è anche, forse soprattutto, per nonno Mimì e di tutti quelli come nonno Mimì. Persone speciali, oneste, che hanno vissuto il Napoli abbracciando la croce di chi sa che qui "succede una volta ogni tanto". E pazienza se per anni e anni non succede. È il mestiere del tifoso. Quello vero. Quelli che credono che A16 sia semplicemente una autostrada che collega la Campania alla Puglia e non una becera contestazione senza né capo né coda, dettata da odio avariato e saccenza da social.

È lo Scudetto di zio Antonio, delle sue telefonate post partita e della sua sedia eterna davanti alla televisione. È dell'altro Mimì, che per lui erano tutti nessuno e nessuno tutti e che non si capacitava come i nativi di queste terre potessero giocare contro il Napoli e magari fare anche gol.

Lo Scudetto è loro. Di chi non ci sta più. Ma che vive negli occhi di chi, come mia moglie, seduta sul divano con le lacrime agli occhi dopo la staffilata di Raspadori, mi dice "come vorrei fosse qui solo per vedere il suo sorriso".

Non ci rendiamo ancora conto di cosa sta per accadere. Perché il calcio non è solo un gioco. Non è solo un gioco.