Faccio mea culpa.

Il fatto è che lunedì sera, dopo le 4 pere rifilate al Milan dalla Lazio, sono stato travolto da un entusiasmo incontrollabile. Più 12 sui rossoneri, più 13 sull’Inter, le romane manco le considero per la corsa scudetto, quelli lì giù, sempre più giù, in un abisso senza fine.

E così io, scaramantico fino al midollo, ho pronunciato quella parola che di solito non dico manco sotto tortura.

Io, che quando incrocio qualche fratello di fede azzurra, con gli occhi che ridono, cerco di smorzare l’euforia ripetendo come un mantra “calma, calma, è lunga, lunghissima, ancora non abbiamo fatto niente”, ecco, proprio io, calendario alla mano, ho cominciato a ipotizzare le possibili date della festa.

Con il terrore di avere qualche altro impegno ho controllato freneticamente l’agenda. Che mica posso rischiare di stare a qualche battesimo, comunione o matrimonio del cazzo mentre fuori impazza la festa?

Già, la festa.

Ci ho pensato tutta la notte, gli occhi spalancati al soffitto. La città dipinta di azzurro, io mano nella mano con mio figlio, nella teste le parole che un vecchio mi disse nei distinti il 10 maggio 1987. “E che mazzo che hai avuto! Io ho aspettato 60 anni prima di vedere uno scudetto”. Le avrei dette uguali uguali a mio figlio. Solo che gli anni sono 33. Una discreta porzione di vita.

Il giorno dopo ero già pentito. Troppi voli pindarici, troppo entusiasmo immotivato. Avevo bisogno di qualcosa che mi facesse tornare subito con i piedi per terra.

E quel qualcosa si è materializzato al momento della designazione arbitrale di Napoli Roma: Daniele Orsato da Schio, l’uomo che mi ha fatto vivere una delle serate più brutte della mia vita. L’uomo che ha fatto cacciare il peggio di me.

Ed eccoci qui. 29 aprile 2018. Inter – Juventus.

La settimana prima avevamo sbancato lo Juventus Stadium. Al gol di Koulibaly avevo cominciato a correre come un dodicenne che sente la campanella che decreta l’inizio delle vacanze estive. Braccia in aria, piedi a due metri da terra, da Via Caldieri a Piazza Vanvitelli in 4 minuti e 12 secondi, le bandiere, le sciarpe, i cori per tutta la notte.

Non avevamo vinto niente eppure eravamo sicuri che il sogno fosse a un passo. Poi, passata la sbornia, uno studio accurato del calendario e una certezza: solo contro l’Inter i gobbi avrebbero potuto perdere punti.

Era quella la partita decisiva.

Provai a spiegarlo a mia moglie.

“Ma mica gioca il Napoli?”

“No, ma è una partita troppo importante. E lo sai che le partite importanti le devo vedere da solo che non mi controllo…”.

“Già sacrifichiamo tutti i week end per colpa del Napoli. Tuo figlio è piccolo e il mare gli fa bene. Adesso sei padre e non puoi essere egoista. Tanto in qualche modo te la vedi…”.

Alla fine, per non fare tarantelle, cedetti.

E sbagliai.

Arrivammo a Santa Maria di Castellabate nel pomeriggio. Ero già in pappa totale. In testa un unico

pensiero: la partita.

Già dalle sei cominciai a martellare: “E’ tardi, è tardi. Andiamo!”

Avevamo prenotato un tavolo al Ristorante Pizzeria il Pellicano. Poverini. Se ancora adesso avessero una mia foto con la scritta “Non sei il benvenuto”, non li biasimerei.

Naturalmente arrivammo in ritardo. Sedemmo a un tavolo defilato, lontano dalla televisione, accesa senza audio. Mi accorsi che, a parte qualche fratello con cui bastò un’occhiata per riconoscerci, alla maggioranza della gente presente in sala non gliene poteva fregare di meno.

Male.

Ordinai una pizza che mangiai senza sentire il sapore.

Cominciai presto a dare il peggio di me.

Diciotto minuti e l’Inter era in dieci e sotto di un gol. Clamorosamente i nerazzurri la ribaltarono: gol di Icardi e vantaggio su autogol di Barzagli

Non ci potevo credere.

Ero in piedi davanti al televisore, fumando come un ossesso, camminando in cerchio col cuore che sbatteva forte contro lo sterno, e mi ripetevo che stava succedendo. Stava succedendo davvero!

E poi Pjanic, già ammonito, fece un intervento stile Cobra Kai su Rafinha.

“Rossooooooooo”, urlai alzandomi in piedi sulla sedia.

“Siediti, ti prego, ci guardano tutti”, fece mia moglie che si voleva sotterrare.

“Rosso! Come fai a non buttarlo fuori. Orsatooooooo”.

Al nome feci dell’arbitro feci seguire una serie di epiteti e male parole di cui, ammetto, non vado particolarmente fiero.

Mia moglie mise le mani sulle orecchie di mio figlio trascinandolo via.

La proprietaria del ristorante si avvicinò chiedendomi di moderare il linguaggio. Ma io ero in trance. Un pazzo. Un pazzo furioso.

“Era rosso. Non è possibile non espellere per questo fallo”, le urlai come se fosse una mia compagna di stadio.

Appurato che ero incapace di intendere e di volere, fui lasciato solo, guardato a vista come un soggetto potenzialmente pericoloso.

Finì come tutti sappiamo.

Mi ritrovai seduto su una sedia, a piangere senza ritegno, con mio figlio che mi accarezzava senza capire cosa stava accadendo e mia moglie che mi trascinava via.

“Mi hai fatto vergognare come una ladra”, mi disse in macchina sulla via del ritorno.

“Lasciami stare”

“Non puoi comportarti così”

“Hai mai avuto un sogno? “

“Certo. Come tutti”.

“Io ho avuto lo stesso sogno per 28 anni. Per 28 lunghissimi, fottutissimi anni. Sempre lo stesso sogno. Un sogno forse infantile, ma che avrei barattato per qualsiasi successo personale. E ora che questo sogno era reale, l’ho accarezzato, l’ho visto a un passo dal realizzarsi, me l’hanno strappato via. Lasciami stare. Non mi parlare. Non potrai mai capire”.

Passai la notte completamente in bianco.

Convinto che un’occasione del genere non sarebbe capitata mai più.

Mi sbagliavo.

Perché oggi quel sogno è più vicino che mai.

E, con tutte le scaramanzie del caso, sono fermamente convinto che a sto giro neanche Daniele Orsato da Schio potrà fermarci.