É difficile riuscire a scrivere qualcosa su Napoli - Juventus 5-1 che non sia stato detto, sviscerato e analizzato già altrove, anche se sono passate meno di venti ore dalla fine di un match dalla portata storica e sociale.

Tra tutte le frasi pronunciate anche dai protagonisti sul campo, quella che più mi ha accesso una lampadina è una talmente semplice e limpida da sembrare banale ed è quello che dice il capitano di questo Napoli Universale, Giovanni Di Lorenzo, nell’intervista post-match:

Quello che stiamo facendo in questa stagione è un lavoro che parte da lontano.

É effettivamente così. Il Napoli di Spalletti ha iniziato a lavorare insieme un anno e mezzo fa, che è esattamente il tempo che ha avuto a disposizione anche nella Juve Massimiliano Allegri (il cui incubo, almeno per adesso, sembra essere stato definitivamente spazzato via), con la differenza che quest’ultimo conosceva già l’ambiente e godeva anche di un certo credito e protezione.

Ieri sera, agli occhi di chiunque, la differenza del lavoro svolto nei due casi è lampante.

Sembra quasi che la rappresentazione stereotipata dell’Italia, che ha sempre descritto il Nord come il posto in cui vige la cultura del lavoro ed il Sud il paese in cui prolifera l’arte dell’arrangiarsi sia stata sovvertita, almeno nel Calcio.

Il Napoli è il manifesto di cosa significhi e dove possa portare il lavorare sempre e comunque, fissare degli obiettivi intermedi fino a quello finale, rialzarsi dopo le batoste, che sia una sconfitta in un big match oppure la tremenda delusione per un titolo sfumato all’ultimo. Il Napoli è la squadra che rappresenta una città, un popolo, che ha vissuto tante dominazioni, tra cui una, la neoborbonica, definita in passato da Aldo Cazzullo “culturalmente debolissima ma mediaticamente fortissima”. Vien quasi da sorridere a questo pensiero. Eppure, oggi è il Napoli che sta esportando al mondo il significato della parola lavoro. É il Napoli ad essere la big italiana più credibile.

Già questo basterebbe per pensare che il mondo forse sta andando alla rovescia.

Ma c’è di più.

Sì, perché dall’altra parte del campo ieri abbiamo assistito alla sintesi finale di cosa è diventata invece la Juventus. La squadra che dovrebbe rappresentare l’orgoglio sabaudo e quella cultura del lavoro poc’anzi menzionata, è invece, per scelta sua e di certo non per mancanza di mezzi, il manifesto del vivacchiare, dello speculare, insomma dell’arrangiarsi alla napoletana. Del “chiagni e fotti” il cui significato è così radicalmente associato alla nostra cultura da essere sdoganato anche fuori regione nel nostro dialetto e non nella lingua nazionale.

Eppure se c’è un allenatore che si è arrampicato alla semplice gufata pre-partita – “il Napoli ha tutto da perdere” – e che ha ripetuto la stessa litania nel post-match – “Non so se fra due mesi il Napoli sarà ancora così” – è quello che siede sulla panchina bianconera.

Eppure se c’è un allenatore che vivacchia ancora oggi sulle giocate estemporanee dei suoi (sempre meno) campioni, che quando vince lo fa sempre di riffa o di raffa, è sempre lui. Lo stesso che scappa verso gli spogliatoi sperando di non esser costretto a riconoscere i meriti dell’avversario.

Quindi i casi sono due: o siamo entrati, senza accorgercene, in un’altra dimensione, nel Sottosopra di Stranger Things, oppure tutto ciò che ci è stato sempre propinato dai giornali, di un’Italia divisa in due per ragioni quasi genetiche, in una parte laboriosa ed in un’altra fannullona, era solo l’ennesima aberrazione informativa che trascura la verità fondamentale: c’è chi ha avuto i mezzi per poter prosperare e chi no. La teoria dei fratelli Randolph in “Una poltrona per due”: date al povero i mezzi del ricco, e viceversa, e tutto si capovolgerà.

Il Napoli però non ha avuto nemmeno bisogno di questo. Il Napoli ha dimostrato che, partendo dalla serie C, con il lavoro e la costanza, fra alti e bassi, ha saputo sempre costruire e ricostruire, cadere e rialzarsi. Migliorarsi.  Ciclo dopo ciclo. La Juve, invece, dopo una giusta retrocessione in B per illeciti sportivi, rivede nelle aule giudiziarie un Inferno al quale, se fossimo limitati di pensiero come altri, penseremmo sia geneticamente destinata. Ma non lo siamo.

La vittoria di ieri, quindi, non è solo sportiva ma anche politica.

Perché, al di là dello sport e dei trofei, il vero derby d’Italia è quello che vede il Napoli, città simbolo dell’Italia meridionale, contro la Juventus, alfiere del regno sabaudo-piemontese.

Ed il risultato questa volta è stato senza storia.

E sarebbe fantastico se, della Storia del Calcio, la partita di ieri ne diventasse il primo rigo della riscrittura. Sapremmo anche come iniziare:

In principio c'era Napoli Juventus 5-1...