Sai quante volte Robert De Niro è stato in Argentina? Due volte. Quest’anno e nel 1986.

Ma prima di dare un senso alla citazione che fa da incipit a quest’articolo, vorrei descrivervi una scena di vita vissuta.

Diversi anni fa venni invitato, per la prima volta, a casa della mia ragazza. Non era un giorno qualunque, era una domenica di fine ottobre in cui si giocava un Napoli-Milan. Prima di accettare, da buon tifoso, mi assicurai che fosse possibile vedere la partita. Conoscendo il mio modo di viverla, prima di recarmi all’appuntamento, allo specchio, mi feci una sola raccomandazione: qualunque cosa accada, non esagerare nelle reazioni.

La partita scivolò quasi subito su binari piuttosto tristi per i colori azzurri: dopo cinque minuti il Napoli era già sotto di due reti. Non ebbi praticamente nemmeno il tempo di calarmi nell’emotività del match, che questo già sembrava chiuso. Vidi però il bicchiere mezzo pieno: almeno non avrei avuto reazioni inconsulte. Il padre della mia ragazza, invece, appariva tranquillo perché – parole sue – quella mattina si era rotto il forno. Erano quasi vent’anni che ce l’aveva. Si ricordava di averlo comprato nel lontano 1993, un weekend in cui si giocava un Milan - Napoli. Il Napoli andò in doppio vantaggio, Policano e Careca, il Milan poi pareggiò con doppietta di Lentini. Finì 2-2. Quindi, ovviamente, quel giorno che il forno aveva tirato le cuoia dopo un lungo servizio, sarebbe finita allo stesso modo, ma a parti invertite.

Lo stetti ad ascoltare con quell’aria di presunzione e finta considerazione che solo un confronto generazionale può restituire: due modi diversi di vivere ed interpretare il mondo, ma entrambi ugualmente convinti di essere nel giusto. Lui confidente nella cabala, io rassegnato al razionale.

Poi, nei minuti di recupero, il Napoli realizzò due reti insperate ed ottenne il pareggio. Se alla prima marcatura riuscii a soffocare un semplice “gol”, alla seconda impazzii letteralmente: dimenticando dove mi trovassi, chi fossi, quanti anni avessi e probabilmente anche qualche regola basilare di bon ton. Mi alzai dalla sedia iniziando ad urlare sguaiatamente frasi senza senso ed accompagnando il tutto con ripetuti gesti dell’ombrello, rivolti a chissà chi, forse a qualche entità superiore che reputavo tifosa del Milan. Dopo qualche secondo ritornai in me, mi ricordai dov’ero, mi voltai verso il padre della mia fidanzata e… ma questa è un’altra storia. Ritorniamo alla citazione. Da dove proviene?

Coincidenze... o destino?

Ebbene: questa frase su Bob De Niro è in uno spot pubblicitario di una birra argentina diventato virale negli ultimi giorni, prima in patria e poi nel resto del mondo. Il titolo, evocativo e semplice, è “Coincidencias”. Non è difficile intuirne il filo conduttore: una serie di eventi che – coincidenza o destino? – pare si siano ripetuti quest’anno dopo il 1986. Il messaggio del video è altrettanto evidente: convincersi – e convincerci – che questo è l’anno in cui l’Argentina tornerà a vincere il Mondiale di Calcio. Come se la Storia, anche nel Calcio, ci sussurrasse il suo finale attraverso dei piccoli o grandi segnali nascosti nel suo passato: sono i famosi "corsi e ricorsi storici". E a conti fatti all’Argentina manca un solo, ultimo e decisivo passo per compiere l’opera.

Del resto noi napoletani siamo degli specialisti nel notare i corsi e i ricorsi e forse non è nemmeno un caso che uno dei principali esponenti della teoria della ripetitività della Storia sia proprio un napoletano: GianBattista Vico.

Se però la filosofia vichiana mirava a dare una spiegazione ai cicli della Storia – con l’uomo e la civiltà che compivano cicli di ascensione e decadenza continui – perché l’uomo che vive di Calcio periodicamente ripropone queste Matrioske di coincidenze?

Accadde anche nel 2006, ricordate? Allora il “segno” inequivocabile del destino era che l’Italia arrivasse in finale ogni dodici anni: 1970-1982-1994-… 2006.

Probabilmente è ciò che sta succedendo anche quest’anno, a Napoli, dove ci affanniamo a cercare altri segni nascosti che ci diano conferma che questo è l’ “anno buono”. E in questo senso anche la vittoria del Mondiale da parte dell’Argentina andrebbe ascritta tra i segni premonitori di uno scudetto azzurro.

Chiariamoci: qui non si sta parlando di squisita scaramanzia, non si tratta di gesti rituali di accompagnamento ad una partita. Nossignore, qui si parla di un vero e proprio pensiero, che probabilmente avvolge e coinvolge tutti i popoli e che ha anche un suo nome piuttosto suggestivo: Pensiero Magico.

Il Pensiero magico è un processo mentale in totale antitesi con quello di causa-effetto discusso qualche giorno fa a proposito di Trentalange (non si è ancora dimesso ndr) e del caso Portanova: nel pensiero magico due fatti o eventi vengono messi in relazione anche se non c’è alcuna evidenza razionale del loro legame. Eppure questi vengono visti come parte di un disegno comune, come se qualcuno, o qualcosa sopra di noi, stia tessendo una trama della quale, dopo un’attenta analisi, riusciamo a scorgere gli inequivocabili segni. Se ci pensate non è altro che un modo più romantico di chiamare il Complottismo.

Ed ecco spiegato perché il fatto che Giove passi in Pesci in questo periodo – così come nel 1986 – che la finale si giochi a mezzogiorno, ora locale – così come nel 1986 – o che il Canada abbia partecipato a due sole edizioni del Mondiale – indovinate quali – diventano le tessere che vanno a comporre il mosaico che tutti i connazionali di Giovanni Simeone stanno sperando. Ah, e non dimentichiamo che oggi, come allora, l’Argentina ha nelle proprie file il miglior giocatore del mondo. Segni.

Se si analizza con razionalità, è ovvio che ci sforziamo di vedere solo ciò che vogliamo vedere. Perché, a ben pensarci, l’Italia non è più arrivata in finale dei Mondiali dal 2006 e chissà quante altre volte Giove è passato e passerà ancora in Pesci.

L'unica cosa che davvero conta

Ma forse non conta tanto che queste relazioni siano reali, forse è il fatto stesso di volerci credere a dare un senso al tutto. Il credere ad una sorta di magia che permea gli eventi e al fatto che il proprio pensiero possa contribuire a modificare la realtà è comune soltanto a due categorie di persone. Sapete quali? L’uomo primitivo e il bambino, e non può essere un caso che entrambi, per la loro scarsa conoscenza del mondo reale, abbiano delle facoltà immaginifiche elevatissime.

E, in fondo, il soffrire per una partita di calcio e l’esultare per un gol decisivo non è forse il momento in cui ci spogliamo di tutte le nostre convenzioni sociali per gridare e gioire come un bambino che vive soltanto il presente, cogliendo l'attimo? Oppure come un uomo preistorico, preda del proprio istinto e ancora privo di tutto ciò che la "ragione" gli vieterà anche solo di pensare?

È il calcio, Signori e Signore, che ci riporta indietro. Che ci fa compiere quegli stessi cicli di cui parlava Vico, che ci fa ridiventare bambini e poi ritornare adulti nell’arco di soli novanta minuti, più recupero.

E allora vale tutto. Anche fare un gesto dell’ombrello in casa del padre della tua ragazza. Perché tanto, si sa, se anche lui è tifoso, si volterà verso te e ti rivolgerà un sorriso, perché ha capito che alle emozioni bisogna dare sfogo e che a certi pensieri, al di là di come poi finirà veramente, bisogna credere. Perché crederci, più di vincere – e qui ogni riferimento è puramente casuale – è quasi tutto ciò che conta. E, quindi, al di là come andrà a finire e prendendoci il rischio di schierarci – perché un tifoso si schiera sempre – diciamo: forza Messi e forza Argentina.


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