Il Milan è un club commissariato
Bufera in casa Milan. Secondo Dagospia: Paul Singer - fondatore e partner di Elliot Management Corporation- ha chiesto a Gerry Cardinale - fondatore di RedBird Capital Partners, società americana con interessi nello Sport e nell'intrattenimento e proprietaria dell'AC Milan dal 2022 - di rientrare dei 600 milioni di euro di prestito. Cardinale si è vendicato silurando l'Ad, Giorgio Furlani, uomo di Elliot. In società arriva Zlatan Ibrahimovic come managing director per la parte sportiva. L'ex attaccante svedese ha chiesto espressamente a Cardinale di non rispondere a Furlani.
Una situazione che non spiega la crisi tecnica dei rossoneri, ma quasi. E che al momento può essere relegata a voce di corridoio. Ma fa riflettere su un modello d'affari che stimola la fantasia dei tifosi attratti dal fascino dei capitali esteri nella convinzione che chi ha soldi e potere sia folgorato da un mecenatismo rinascimentale applicato al calcio.
Il mecenatismo nel calcio non esiste
Nei fatti, però, non c'è nulla di antropologico. Certi modelli finanziari rischiano di far diventare club prestigiosi come il Milan terreno di conquista per investimenti a tempo. Piattaforme sulle quali esercitare il proprio personalissimo potere finanziario, rendendo sempre più laterali le questioni di campo. Organigrammi societari spacciati come layout di business evoluti, in realtà, altro non sono che sistemi di controllo mascherati, quadri che fungono da sentinelle interne, infiltrati dell'investitore di turno. Commissari speciali della grana.
In estate, si è sviluppata molta letteratura attorno all'innovativo modo di fare mercato attraverso gli algoritmi, ad esempio. Sembrava fosse arrivato il futuro all'improvviso. Ha dovuto lasciare il passo mediatico anche un modello vincente come quello dello scouting messo in piedi dal Presidente Aurelio De Laurentiis per il suo Napoli. Modello che negli anni ha permesso al club di accedere nella top 20 dei club europei per valore della rosa e risultati sportivi, oltre vincere uno scudetto che a distanza di pochi mesi è già percepito come un dettaglio. O addirittura come un incidente di percorso.
Non è perfetto, ha margine di errore prossimo allo zero, ma il fatto che il club partenopeo viva di risultati sportivi e di valorizzazione del patrimonio tecnico dovrebbe far dormire sonni tranquilli i propri sostenitori, invece alle prime difficoltà gli si fa la guerra, inneggiando a modelli di business almeno opachi. Strizzando l'occhio a un pluridecisionismo che in realtà è la rappresentazione plastica di un trust in cui ogni azienda fa il suo personalissimo gioco di interessi.
In questi giorni va di moda riempirsi la bocca con il fantomatico commissariamento messo in atto da De Laurentiis per raddrizzare la rotta intrapresa da Rudi Garcia. Come se un imprenditore non annoverasse nelle sue facoltà la possibilità di mettere mano alla propria azienda. Come se la conservazione dei ruoli e la loro autonomia fossero messi in discussione dalla vicinanza.
Si posiziona ogni atteggiamento non conforme all'idea di calcio prestabilita sullo scaffale della decadenza. Eppure, tra un eventuale commisariamento al tecnico e uno economico gestionale al presidente, ogni tifoso o appassionato dovrebbe preferire sempre il primo. Perché sapere chi comanda è una garanzia non da poco.