L'attaccante del Napoli, Giacomo Raspadori, ha rilasciato alcune dichiarazioni ai microfoni della Gazzetta dello Sport in una intervista curata da Walter Veltroni: "Un calciatore all'Università? Siamo sempre di più, per fortuna, a studiare e giocare. Io sto cercando di laurearmi in scienza motorie. Altri, come Pessina, Pobega, Buongiorno e prima ancora Chiellini, hanno dimostrato che non è impossibile far convivere lo sport ai massimi livelli con la propria formazione. Vorrei combattere gli stereotipi sui calciatori: persone senza curiosità, che pensano solo al pallone e ai soldi, senza rilevanti qualità umane. Non è così, mi creda. Sono una persona pratica, molto concentrata sul quotidiano, non faccio voli pindarici. Ma mi piacerebbe dimostrare, in futuro, che i giocatori di calcio possono vivere coltivando il gioco e il sapere, i libri e i calci d’angolo".

Mi racconta il primo impatto con Napoli? "Sin da subito essere qui è stato un motivo di orgoglio. Mi avevano cercato Juve, Milan, Inter ma sono felice di giocare nel Napoli, anche per la storia dei calciatori, vorrei ricordare solo Maradona e Juliano, che hanno indossato questa maglia. Io sono ambizioso e sapevo che questo era il luogo giusto: dopo il magnifico tempo trascorso al Sassuolo, avevo bisogno di uscire dalla mia comfort zone, di lottare per uno scudetto e nelle coppe internazionali. All'inizio è stato strano, ma qui c’è energia, si vive la gioia di vivere e si percepisce una passione per il calcio che è febbre e amore vero, collettivo, quotidiano. Sono felice, qui".

Lo scudetto? "Lo scudetto era nell’aria, quell’energia ci sospingeva. La città fibrillava, e noi con lei. E’ stata una vittoria della squadra, dell’allenatore, della società. Ma anche di tutta la città: si percepiva un desiderio comune, un’attesa vissuta in ogni casa che poi è diventata gioia collettiva".

Quest’anno invece cosa c’è che non va? "Non credo ci sia qualcosa di particolare. Penso sia fisiologico, dopo la vittoria dello scudetto. Non è un alibi, ma l’anno scorso è stato emotivamente dispendioso, non siamo abituati a vincere, non abbiamo sempre la cattiveria che discende da quella convinzione. Dobbiamo ritrovarla, ci stiamo lavorando. Siamo una grande squadra. Non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo mai".

A quale giocatore si è ispirato? "Aguero. Sia per caratteristiche fisiche che per modo di stare in campo. Poi Di Natale, Rooney, Tevez".

C’è qualcosa che non le piace, nel grande circo del calcio moderno? "Gli aspetti mediatici, che possono portare a una instabilità in ragazzi come noi. Nel calcio si raggiunge tutto molto velocemente e se non si ha la fortuna di avere attorno persone che ti fanno rimanere collegato con la realtà, ti aiutano a non dimenticare da dove vieni, il rischio di perdersi è molto alto. Passi dal non essere riconosciuto ad avere fama e stare sui media, improvvisamente hai tanti soldi da spendere: se non gestito, tutto questo può portare dei ragazzi in situazioni di difficoltà".

Il talento si educa, si raffina? "Sì, si educa. Certo, ci deve essere una base, un’ispirazione. Ma io appartengo alla corrente filosofica, nel calcio, di chi pensa che il talento sia poco, se non è accompagnato dalla durezza del lavoro. La più grande fortuna di chi ha talento è di averne coscienza e, per questo, ha la disponibilità a lavorarci su, a disciplinarlo proprio per farlo emergere. Se hai un dono, devi sfruttarlo. Devi coltivarlo ogni giorno, magari pensando alla fatica di chi quel talento non ce l’ha".