Si stava meglio quando si stava #A16
L'estate appena trascorsa passerà alla storia come il periodo di massima espressione del Movimento Social Populista Insurrezionalista di Liberazione nato sotto la bandiera dell'hashtag A16. Sviluppatosi da una costola del Sarrismo, fonda i suoi principi durante gli ultimi tre mesi della stagione della rivoluzione monca del '18, rielaborando i dogmi anti societari del tecnico toscano impegnato a programmare la sua via d'uscita.
La mancata conquista del palazzo aveva bisogno di un capro espiatorio interno, e il movimento si è fatto promotore di iniziative volte a sabotare l'egemonia di Aurelio De Laurentiis, il nemico numero uno, l'invasore romano reo di aver rubato sogni e dignità a un popolo che vive per il calcio e per l'esaltazione continua della propria unicità.
Tre mesi di polemiche feroci su qualsiasi tema, dal più futile come il ritardo della presentazione delle maglie, fino all'accusa di razzismo per considerazioni abbastanza ovvie sulla Coppa d'Africa. Facciamo fatica a elencare tutto il programma politico asedicista, perché la composizione schizofrenica di tale dottrina ha avuto il merito di abbandonare silenziosamente le polemiche sterili (tutte) ogni volta che le realtà storiche le hanno smontate, ripiegando su concetti eterei come la mancanza di comunicazione o l'antipatia del Presidente.
A tratti è sembrata un'azione coordinata che godeva di appoggi esterni, data la stratificazione degli attacchi su più livelli, cittadini e nazionali. Per un periodo si è temuto il peggio. L'aria era irrespirabile.
Tra propaganda e striscioni abusivi
Si è viaggiato con la media di uno striscione abusivo al giorno. Non è stato risparmiato nessuno. L'attacco alla dirigenza si è sviluppato non senza vendette trasversali. Ne hanno fatto le spese Spalletti e i nuovi acquisti, accolti con un senso di disprezzo per il solo fatto di essere stati scelti da Aurelio De Laurentiis, impegnato a evirare la rappresentanza eletta dal popolo all'interno dello spogliatoio.
Oggi sono tre mesi esatti dalla prima apparizione ufficiale del nuovo Napoli, che si presenta a Verona senza un portiere; senza l'esperienza dei senatori; senza un attaccante che sappia stoppare; con un centrale di difesa ventiseienne che non ha mai giocato in un top team in vita sua; con un georgiano di 21 anni, chiamato a sostituire il capitano indigeno, ma che in vita sua si è confrontato solo con i falegnami del dopolavoro nella steppa; orfana di Ruiz, l'unico calciatore con l'aurea da predestinato; senza l'unico colpo in grado di riaccendere la passione del romantico pubblico napoletano con gli occhi ancora lucidi per la presentazione di Dybala, probabilmente scritta e diretta da Ridley Scott.
Erano i giorni in cui le pagine social lanciavano una soffiata al giorno. Roba potente, eh. Mica sciocchezze. Tipo che De Laurentiis stesse spingendo Koulibaly nelle braccia della Juventus e che solo il rifiuto del fu Comandante avesse scongiurato quello che sarebbe stato il tradimento del secolo. La pietra tombale sul rapporto tra dirigenza e piazza.
Potenti sono risultate anche le retoriche che volevano la dirigenza azzurra - ormai fiaccata da un'opinione pubblica troppo sveglia e poco corruttibile da insulsi piazzamenti europei - al capolinea finanziario e quindi prossima alla cessione del club. I rivoluzionari avevano fatto anche il prezzo: 650 milioni. L'unico dubbio era rivolto alla quantificazione dell'accantonamento di utili societari, ribattezzato tesoretto dalla propaganda, una declinazione linguistica che dona un'accezione di natura piratesca e dunque predatoria, come se quegli utili fossero frutto di una sottrazione abusiva di un bene pubblico e non di una gestione virtuosa.
Le cose belle finiscono
Sarà una pausa mondiale che ci farà rimpiangere il periodo frizzante del mercato estivo. E, senza girarci troppo intorno, questa volta la colpa è davvero di Aurelio De Laurentiis. Unico colpevole di una stagione che a discapito delle previsioni è stata fin qui perfetta, portando il Napoli a +8 dal primo inseguitore utile in Serie A e qualificato primo nel girone Champions.
Ma non solo, oltre il risultato c'è di più: gli azzurri sono al centro delle attenzioni di tutta Europa per il gioco espresso sul campo. Un modo internazionale di interpretare il football, lontano dai provincialismi che tanto fanno sentire al sicuro la piazza.
Il Napoli è divenuto modello da seguire: economico e tecnico, facendo l'opposto di quello che a gran voce chiedevano i contestatori. Ha comprato giovani e non giocatori dal curriculum che fa status, ha abbassato il monte ingaggi, protetto i propri investimenti valorizzandoli, ha tagliato tutti i ponti con le icone del passato. Insomma, ha rivoltato il pensiero asedicista come un calzino. E ha avuto ragione. Tanta ragione da aver reso il dibattito piatto. Oggi è un tutto un inno alla compattezza dell'ambiente. Sono magicamente bandite le polemiche.
L'ultima speranza per tenere vivo il contraddittorio è riposta nell'atteggiamento di alcuni dei componenti più attivi del fu Movimento Social Populista di Liberazione che cercano disperatamente di appuntarsi al petto medaglie di merito di una stagione che è venuta fuori grazie alle loro pressioni sulla società, ignorando che questa nuova era è stata programmata tempo fa. Prima di quest'estate.
Perché se c'è una colpa da imputare alla società è quella di essere talmente avanti da sembrare fuori dal mondo.