Custodisco gelosamente un’agenda. È piccola e nera. Dentro ci ho ficcato una lista di persone: amici, parenti, colleghi di lavoro, ex fidanzate che, per un motivo o l’altro, mi hanno fatto dei torti.

La chiamo l’agenda del rancore.

Nello spazio dedicato a mia moglie, al primissimo posto tra le cose che mi hanno fatto stare male, c’è scritto: avermi lasciato 24 ore prima della finale di Coppa Italia contro la Juve.

Una cosa che, malgrado una successiva riappacificazione, un matrimonio felice, due figli meravigliosi e dieci anni di distanza, faccio ancora fatica a digerire.

La storia è questa: nel 2012 vivo a Busto Arsizio. Mi sono trasferito l’anno prima. Ho, in società con un mio collega di animazione, un’agenzia di giochi a quiz per locali: il Dr Why.

È stata una scelta ponderata. Lo abbiamo deciso insieme. Il piano originale prevedeva che lei, una volta terminata l’università, mi avrebbe raggiunto in terra lombarda.

Le storie a distanza sono sempre difficili. La nostra non è stata da meno. Nonostante i buoni propositi il nostro rapporto, che durava da sei anni, presto comincia a scricchiolare.

Ci vediamo pochissimo. Una volta al mese. A volte anche meno. Ma soprattutto facciamo due vite completamente diverse. Io sono un vampiro. Vivo di notte. In giro per pub e locali a presentare quel quiz che, all’epoca, va tantissimo. Tiro tardi fino all’alba, dormo di giorno, non ho regole e nessuno a cui dover dare conto. Lei ha una vita più regolare. Non riusciamo neanche a incrociarci con le telefonate. Piano piano ci allontaniamo. Viene meno anche la progettualità, fondamentale in un rapporto di coppia. Una sera mi spiazza dicendo che non lo sa mica se ha ancora voglia di trasferirsi.

Naturalmente ho le mie colpe. Sono distratto, preso da questa nuova avventura, e do per scontato quell’amore che invece va alimentato ogni giorno.

Il mio amore per il Napoli invece va a gonfie vele. Quando vivi fuori il senso di appartenenza alla tua terra e ai tuoi colori cresce a dismisura. La mia ossessione, già patologica, raggiunge livelli inarrivabili.

Nei locali do spettacolo. Mi esibisco in esultanze incontenibili davanti agli sguardi esterrefatti di gobbi juventini, milanisti e interisti. Mi identifico completamente nella squadra e nei suoi risultati.

Quando la nostalgia è troppa mi metto in macchina e raggiungo il mio amico Alessandro al Napoli Club Milano. Lì, finalmente, respiro aria di casa.

È il Napoli di Mazzarri che picchietta sull’orologio e di uno straordinario Matador Cavani. Della cresta di Hamsik, dei guizzi del Pocho, della classe di Pandev ma anche di una difesa non all’altezza.

È un Napoli capace di grandi imprese e delusioni clamorose.

Altalenanti in campionato, fuori dalla Champions dopo aver accarezzato l’idea di eliminare il fortissimo Chelsea, presto comprendiamo che il reale e unico obiettivo della stagione è la Coppa Italia.

Quando superiamo il Siena in semifinale non perdo tempo. Prenoto la sera stessa il volo per Napoli. La finale la voglio vedere a casa.

Con i miei amici. Tra la mia gente.

Nel frattempo la mia storia prosegue tra mille difficoltà. Proviamo a recuperare il terreno perduto vedendoci più spesso. Ma qualcosa si è rotto irrimediabilmente. Lo so, ne sono consapevole.

Ma una parte di me non molla. Ci credo ancora.

Nella settimana che precede la finale le telefonate si fanno ancora più fredde e distaccate.

“Che c’è? Non sei felice che torno?”

“Ne parliamo da vicino…”.

Ho già capito. Sbarco a Capodichino con l’allegria di un condannato a morte che va incontro al suo boia.

Ci vediamo nel suo parco. Scende con le lacrime agli occhi. Mi avvicino per baciarla ma si scosta.

“Mi dispiace. Mi dispiace davvero ma non ce la faccio. Non provo più le…”.

Non la faccio neanche finire di parlare.

Corro via a capo chino, le lacrime bastarde trattenute con orgoglio.

Cammino da solo per una Napoli che non mi è mai sembrata così estranea.

Ho perso la donna della mia vita.

Eppure il mio cervello continua a inviarmi un unico messaggio: “Che stronza! Mi ha lasciato il giorno prima di Napoli Juve. Cioè, ti rendi conto? il giorno prima di Napoli Juve…”.

Trascorro una notte insonne.

Mi ripeto a loop sempre la stessa frase: “Se il Napoli perde io non lo so se ce la faccio ad andare avanti…”.

Il pomeriggio che precede la partita sto con i miei amici. Ci ritroviamo in un capannone enorme ai Camaldoli, che utilizzano come officina per riparare i computer.

Lo passiamo tra sfide a Fifa, tornei di ping pong e fiumi di birra. Provo a distrarmi ma sono teso come una corda di violino. Il tempo passa e la tensione aumenta sempre di più.

Ho pessime sensazioni. Immagino Del Piero che ci alza la coppa in faccia. Immagino gli sfottò dei gobbi una volta tornato a Busto Arsizio. O forse, boh, neanche riesco ad immaginarmelo un futuro.

La vedo tutta in piedi. A girare in cerchio come un criceto in gabbia.

Al rigore di Cavani mi metto le mani in faccia. Non riesco a guardare. Non esulto neanche, convinto che comunque ci avrebbero ripreso. Ma quella sera De Sanctis para tutto e la squadra ha gli occhi della tigre.

Poi quel contropiede: Goran che la porta, passaggio per il Capitano, io che grido prima del tiro, Mareeeeeeeek Mareeeeeeek ti prego Mareeeeeek, il diagonale chirurgico, la rete che si gonfia, le lacrime, di gioia, dolore, rabbia, tutto che si mischia in urlo che mi lacera le corde vocali.

Venti minuti di sofferenza totale, il triplice fischio, io che corro.

Pazzo, completamente fuori controllo.

“Datemi qualcosa da rompere. Datemi qualcosa da rompere!”

“Pigliati sta stampante.  Non funziona!”

Mi carico sulle spalle una stampante vecchia, malandata, enorme, di trenta chili, e la spacco in mille pezzi.

“Ventidue anni! Ventidue fottutissimi anni!”, urlo ancora ricordando il tempo trascorso dall’ultimo trofeo.

Cannavaro alza la Coppa e mi tornano in mente i sacrifici, le delusioni, gli sfottò, la serie B, le interviste di Naldi, Corbelli, Gaucci, il fallimento, la serie C.

Piango senza ritegno mentre con i motorini raggiungiamo Piazza Trieste e Trento.

Ci mischiamo nella folla, non so quale barlume di razionalità mi evita di buttarmi nella fontana insieme ad altri pazzi scalmanati.

Ubriaco come la merda canto a squarciagola tutta la notte senza pensare a nient’altro.

Alle cinque del mattino ci mettiamo ad inseguire il pullman della squadra appena rientrata da Roma e saltiamo come grilli insieme a Lavezzi e Zuniga.

È un delirio.

Quando torno a casa è l’alba.

Stanco, distrutto, svuotato, mi scende una capata di nostalgia e una strana consapevolezza.

No, non è stata una semplice Coppa Italia.

Quella sera il Napoli mi ha salvato la vita.