Avrei voluto esordire questo editoriale raccontando di una vittoria, magari larga, analizzando come e quando il Napoli sia riuscito a dominare il Milan. In alternativa, mi sarei accontentato - seppur con rammarico - di raccontare una bruttissima sconfitta che, se da un lato impatta zero quanto concerne la classifica, dall’altro si tratta comunque di quattro gol incassati in una sfida casalinga. E per quanto questa possa essere ininfluente, non è mai una bella figura.

Ma, purtroppo, il calcio passa in secondo piano. Per l’ennesima volta, il Napoli avrà pure perso una partita, ma Napoli, per colpa di qualche individuo, del quale faremmo volentieri a meno in qualsiasi ambito, ha perso la faccia.

Gli Ultras sono lo specchio di questa città

Quanto accaduto al Diego Armando Maradona è uno scempio. L’ennesimo, oramai consumato sotto l’effige rovinosa e sfiancante chiamata movimento ultras. Padri e madri, ragazzi e ragazze, bambini e bambine hanno dovuto soccombere all’arroganza e alla prepotenza di chi si sente padrone di un settore intero. Di chi inneggia alla libertà di altri compagni di tafferugli che magari sono stati daspati, diffidati o, peggio ancora, sono in carcere.

Le curve, a Napoli, sono dominate da una arretratezza culturale spaventosa e nel complesso, lo stadio, rappresenta il campione ideale di questa Napoli a due facce: una che è pronta a diventare una metropoli moderna, civile, educata, e l’altra che invece è ancorata a concetti preistorici quali il territorialismo e che come unico mezzo di propaganda utilizza la violenza come forma, anche, di prevaricazione sull’altro. Ci vorrebbe un antropologo per studiare i motivi per i quali, nel 2023, con un calcio così profondamente cambiato, figure del genere siano ritenute necessarie da taluni affinché il calcio possa beneficiarne.

La realtà è una: questa gente non serve. Né alla squadra, né alla società, né - e soprattutto - a Napoli.

Gli ultras non sono tifosi

Secondo la Treccani, essere tifosi significa essere ammalati di tifo. Tifosi che vanno allo stadio e scelgono di non tifare, non sono ammalati di tifo. Tifosi che vanno allo stadio col solo intento di protestare, sempre e comunque, a prescindere se la propria squadra del cuore sia in testa o nei bassifondi della classifica, non sono ammalati di tifo. E non essendo ammalati di tifo, non possono essere appellati quali tifosi. 

A Milano, entrambe le sponde, nonostante la crisi di identità delle rispettive squadre, interisti e milanisti riempiono San Siro e non fanno altro che inneggiare ai propri calciatori. Stesso dicasi a Torino, dove avrebbero tutte le ragioni per contestare la società dopo quanto fatto. E che dire dei doriani, abbandonati dalla stessa società e oramai destinati alla categoria cadetta. Questi si, che sono tifosi.

Non sono necessari tamburi, bandiere e pezze per tifare. Per tifare servono voce e passione. Arrivati a questo punto, quindi, a Napoli per quale motivo si contesta? Per qualsiasi cosa, purché possa servire per sfogare l’antipatia nei confronti di una società che ha portato la squadra per la quale dovrebbero tifare al punto tale di avere sedici punti di distacco sulla seconda e ai quarti di finale di Champions League, per la prima volta in assoluto nella sua storia.

Quelli al Maradona visti nei video sono soltanto delinquenti. E gli stadi non possono essere terreno fertile per delinquenti. Per loro, ci sono le carceri. Il posto ideale per chi si fregia da anni di essere tifosi, di seguire la squadra “in Italia, in Europa e nel mondo”, salvo poi far vergognare una popolazione intera per le loro malefatte.

Contestare è sacrosanto, farlo bene è un obbligo

Impossibile prendere posizione per quanto riguarda la contestazione in atto dei gruppi ultras. Per farlo, bisognerebbe sentire tutte le voci in capitolo: ultras stessi, questura e società. Soltanto così, forse, si avrebbe un quadro almeno parziale sul quale poter fare ragionamenti concreti. Allo stato attuale, però, non è possibile farlo perché ogni mulino trae l’acqua al proprio, quindi una verità è molto difficile da scovare. Ogni attore protagonista in questa vicenda ha la sensazione di stare dalla parte della ragione. Quindi ce l’hanno tutti e, contestualmente, sono tutti nel torto.

Lungi da me, ora, provare a sciogliere il bandolo della matassa. Lungi da me schierarmi da una o dall’altra parte. Ma una cosa la so per certa: contestare è sacrosanto, ma ci sono tempi e luoghi per farlo. Di certo quello meno adatto è durante una partita importantissima, in casa, avvelenando un clima sempre più velenoso. Non si fa altro che tornare al punto di cui prima, cioè quello dell’essere tifosi che non tifano e quindi non esserli affatto.

Ben vengano le contestazioni, specialmente quelle giuste. Ma tenetele fuori dallo stadio che porta il nome di una divinità. Tenetele lontane dai bambini, dalla squadra, dalle televisioni. E, se proprio non ci riuscite, statevi a casa. Nessuno vi obbliga a presenziare. Nessuno contesta la vostra assenza, né reclama la vostra presenza. Sappiate fare a meno di chi farebbe volentieri a meno di voi, se questo siete. Siate al livello del Napoli, altrimenti disertate. Eclissatevi.

Il Napoli, soprattutto, abbia il coraggio di mettere al bando questi individui retrogradi che non riescono a stare di pari passo con la società e la squadra. Il Napoli si assuma la responsabilità di vietare loro l’ingresso e riempire davvero lo stadio con gente perbene, il cui unico scopo è tifare e partecipare alla festa continua che questa squadra ci sta regalando, senza pretese collaterali o richieste di benefici speciali. Il Napoli si liberi da questo imbarazzo per compiere definitivamente il salto verso lidi europei e sempre più conformi al suo nuovo status di potenza nel campionato di calcio italiano.


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