Napoli si crede regina, mentre la sua immagine riflessa mostra solo frammenti
Se Conte resterà lo farà con la sua solita furia metodica. Ma il problema di fondo resterà: Napoli ha perso il contatto con la realtà del calcio moderno

Dieci mesi. Tanto è bastato – o forse sarebbe meglio dire, tanto è servito – ad Antonio Conte per decifrare l’ambiente napoletano. Non quello folcloristico e passionale delle curve, ma quello più subdolo e stratificato che si cela nei salotti giornalistici e nei retroscena societari. Un panorama dalla doppia faccia: affabile, quasi genuflesso in conferenza stampa, ma poi, appena spenti i riflettori, pronto a infilzarti con la penna come fosse una lama, in ossequio a una tradizione editoriale più incline al teatrino della polemica che all’analisi oggettiva.
La Napoli del no-sense
La Napoli calcistica si è trasformata in un’arena in cui il gladiatore di turno, oggi Antonio Conte, si ritrova solo, armato della sua disciplina e di un’idea di calcio spesso poco digerita da chi ancora rimpiange l’estetismo sarriano o la coralità spallettiana. E qui sta il punto: in questa piazza, il cambiamento è visto con sospetto. O meglio, è tollerato solo finché non smentisce le convinzioni pregresse di chi osserva, giudica, scrive. L’ex ct della Nazionale, etichettato da subito con l’etichetta di “juventino genetico”, paga la sua identità ancor prima delle sue scelte tattiche. Non è solo calcio: è un processo di rifiuto identitario, un rigetto viscerale che non tiene conto nemmeno della logica.
E mentre Conte cerca di costruire, attorno a sé, quella compattezza invocata fin dal giorno della presentazione, si ritrova circondato da un ambiente disgregato, con figuranti da palcoscenico pronti a voltare gabbana. Gli stessi che un tempo invidiavano il pragmatismo di Allegri o l’intensità di Simeone e Gasperini, oggi sembrano diventati custodi della purezza offensiva, nostalgici del calcio champagne. Un ribaltamento grottesco, figlio di una retorica del "contro" a prescindere.
Il castello delle contraddizioni
Il vero tradimento, però, non è di Conte. È quello di chi si aggrappa a un’idea di calcio che la realtà ha già smentito, e che ignora – o peggio, rifiuta – il tentativo del presidente De Laurentiis di correggere una rotta disastrosa. Dopo lo scudetto, il Napoli è andato allo sbando, e l’arrivo di Conte rappresentava un atto di responsabilità, una scelta coraggiosa e dolorosa, forse anche impopolare, ma necessaria. Eppure, in questa terra in cui si pretende molto e si accetta poco, anche la coerenza è diventata una colpa.
Se nemmeno Antonio Conte, il sergente di ferro, è riuscito a piegare l’ambiente alla sua volontà, allora bisogna smettere di stupirsi davanti ai blackout psicofisici della squadra. I Napoli-Verona di Gattuso (senza escludere gli straschichi delle pregresse decisioni arbitrali), i Fiorentina-Napoli di Sarri (senza escludere gli straschichi delle - molteplici - pregresse decisioni arbitrali), i secondi tempi molli di questa stagione: tutto assume un senso. Non sono episodi, sono sintomi. E se non si interviene sul virus dell’incoerenza ambientale, rischiano di diventare metastasi.
Pretese, aspettative e narrazioni a senso unico
Antonio Conte Ha rilasciato qualche dichiarazione, sì, e subito si è parlato di “pretese”, “ultimatum”, “garanzie”. Ma davvero basta così poco per far scattare il solito riflesso condizionato? Conte parla, e c’è sempre qualcuno pronto a leggere dietro le sue parole un'agenda segreta, un nemico mascherato, una tensione costruita a tavolino.
Ma siamo seri: quando mai un allenatore come Conte – uno che ha vinto ovunque sia andato – non ha incluso, nel proprio arrivo, aspettative enormi? È il pacchetto Conte. Lo sa lui, lo sanno i presidenti che lo scelgono, lo sa anche chi oggi finge sorpresa davanti alla sua richiesta di un progetto solido e competitivo. È ipocrisia pura: lo si chiama proprio per questo. Per alzare l’asticella, per imporre un salto di mentalità, per non accontentarsi mai. E adesso lo si accusa di voler vincere?
Sarebbe curioso ribaltare la prospettiva: qualcuno ha davvero pensato che con Conte al timone il Napoli potesse ambire a un tranquillo sesto posto? Che potesse convivere con l’idea di un “anno di transizione”? Se è così, allora non si è capito niente di Conte, ma nemmeno del Napoli post-scudetto, in crisi d’identità e fame. Lui non viene per “costruire lentamente”, ma per dare uno scossone. Perché questa squadra ha ancora il potenziale per stare tra le prime quattro, ma ha bisogno di un leader vero. E quello, Conte lo è, nel bene e nel male.
Napoli in un involucro di narcisismo autodistruttivo
Altro punto di domanda: può il contesto mediatico e popolare permettersi tutto – provocare, giudicare, emettere sentenze – mentre Conte non può nemmeno chiedere chiarezza? Perché funziona così? Il calcio italiano ha questa strana tendenza: si esalta nel chiedere “grandi nomi”, salvo poi trattarli come un capriccio ingombrante non appena iniziano a esercitare la loro autorità.
No, non funziona così. Non può funzionare così. Se si chiama Conte, si deve sapere chi si sta portando in casa: un uomo che non fa sconti, a nessuno, nemmeno a sé stesso. Pretende perché dà. E se chiede garanzie non è per capriccio, bensì per coerenza. L’alternativa è la mediocrità camuffata da “progetto sostenibile”. Ma non è per quello che Conte è tornato.
E allora, o lo si accetta per quello che è – con il suo fuoco e le sue richieste – o si smetta di invocare “grandi rivoluzioni” solo per poi spaventarsi al primo scossone. La verità è che Conte non cerca nemici: li smaschera. E a qualcuno, questo, dà fastidio.
Se Conte resterà lo farà con la sua solita furia metodica. Ma il problema di fondo resterà: Napoli ha perso il contatto con la realtà del calcio moderno, e continua a guardarsi allo specchio credendosi regina, mentre la sua immagine riflessa mostra solo frammenti, illusioni e un narcisismo autodistruttivo.
