Ci sono partite che non si dimenticano.

Partite che ti restano dentro, cicatrici indelebili che ti porti dietro per tutta la vita.

Soprattutto se hai 11 anni.

Soprattutto se tutti, ma proprio tutti ti hanno detto che quella squadra lì, la tua squadra, quella in cui gioca il giocatore più grande di sempre, è la più forte della storia azzurra.

Sì, perché a detta di molti, il Napoli 1987/88, almeno fino a quel momento, senza considerare quindi la grande bellezza del Napoli di Sarri e il Napoli attuale che sta stracciando il campionato, era una macchina perfetta.

La squadra campione d’Italia si era rinforzata in estate con Careca. Nel girone di andata gli azzurri sembravano fare un altro sport. 15 partite: 11 vittorie, 3 pareggi, una sola sconfitta.

La squadra giocava che era una meraviglia. Il trio d’attacco, Maradona Giordano, Careca (la celebre Ma. Gi. Ca) dava spettacolo su tutti i campi.

A gennaio già giravano in città sciarpe e bandiere con la scritta: Napoli campione d’Italia 1987/88.

Non c’erano dubbi. Quello scudetto era cosa fatta. Soprattutto non si vedevano avversari in grado di impensierire la corazzata azzurra.

Il Milan, distante 5 punti (con la vittoria che ne valeva 2) non sembrava costituire una minaccia.

Erano partiti malissimo, i rossoneri. I giocatori mal digerivano gli allenamenti massacranti e le ripetizioni fino alla noia di schemi e movimenti senza palla volute fortemente da Arrigo Sacchi, quell’allenatore sbucato dal nulla e senza tradizione calcistica. Quando a novembre furono eliminati in Coppa Uefa dall’Espanyol, erano in tanti a essere certi dell’esonero del tecnico di Fusignano.

https://youtu.be/wRw4rxbktO0

E invece il nuovo presidente Berlusconi convocò una riunione con i giocatori e, guardandoli negli occhi, disse: “Sacchi rimane fino alla fine dell’anno. Voi, non so”.

Fu la svolta.

La squadra assimilò i dettami tattici voluti da Sacchi: pressing asfissiante, difesa alta, ritmo forsennato, ripartenze fulminanti. E cominciò a vincere.

Il Napoli, invece, in primavera crollò.

Prima una sconfitta interna con la Roma. Poi una serie di pareggi. Un’altra sconfitta, contro la pessima Juve di Ian Rush.

Ci ritrovammo a tre giornate dalla fine con un misero punto di vantaggio.

Il calendario proponeva lo scontro diretto. Stadio San Paolo. 1 maggio 1988. Napoli – Milan.

Diego, nei giorni precedenti alla sfida, cercò di caricare l’ambiente: “Non voglio vedere neanche una bandiera rossonera allo stadio”.

Andai con mio padre. Ero abbonato nei distinti. La partita cominciava alle 16 ma noi eravamo seduti al nostro posto già a mezzogiorno. Faceva un caldo infernale. Guardavo le facce degli spettatori, soprattutto quelli più grandi, e nei loro visi un sentimento vinceva su tutti gli altri: paura.

Avevamo tutti paura. Paura che quel sogno finisse. Paura di perdere uno scudetto già vinto.

La stessa paura la mostrò Ottavio Bianchi nella formazione titolare: escluse Bruno Giordano per il mediocre difensore Bigliardi. Con la numerazione da 1 a 11 il numero 9 lo indossava il centrocampista Salvatore Bagni.

Un 5 4 1 abbottonatissimo, nel tentativo disperato di strappare un punto e conservare il vantaggio in classifica.

Non ci fu partita.

Il Milan giocava a calcio. Noi avevamo paura.

Il Milan correva. Noi no.

Segnò Virdis, anticipando Garella in uscita disperata.

Sul San Paolo calò il gelo.

Poi, all’ultimo minuto del primo tempo, ci fu una punizione per il Napoli.

La distanza era considerevole ma Diego cacciò dal cilindro uno dei pezzi più pregiati del suo repertorio.

La parabola, arcuata, carica di effetto, terminò la sua corsa proprio nel sette, con Galli, il portiere del Milan, che quasi si spaccò la testa sul palo per cercare di prenderla.

Ne ho vissute tante di esultanze allo stadio nella mia vita.

C’ero il 3 novembre 1985 alla punizione di Maradona in area contro la Juve. C’ero al 2 a 1 di Careca contro lo Stoccarda. C’ero al gol di Di Canio contro il Milan. C’ero al gol di Cavani contro il Lecce. C’ero a quello di Denis al 93’ sempre contro i rossoneri. C’ero a quello del Matador nel 4 a 3 contro la Lazio.

Ne ho vissute tante di esultanze allo stadio.

Ma quella le batte tutte: mi ritrovai dieci gradoni più giù, con mio padre che mi cercava disperato nella folla, abbracciato, stritolato da sconosciuti.

Non era solo gioia. Era rabbia. Era un urlo primordiale, quasi a voler gridare al mondo ci siamo, ci siamo ancora.

Siamo ancora vivi.

Purtroppo durò poco. Nel secondo tempo ci surclassarono. Ancora Virdis. Poi van Basten, al rientro dopo l’infortunio, su passaggio di Gullit.

Lo stadio era un cimitero.

Provammo a scuotere la squadra, ma era chiaro a tutti che quel pomeriggio non c’era niente da fare.

Segnò Careca a dieci minuti dalla fine. Ci fu un assalto finale. Disperato, di pura rabbia. La stessa che provavamo noi impietriti sugli spalti.

Poi, quando l’arbitro fischiò la fine, accadde qualcosa che non avrei mai dimenticato.

Applaudimmo tutti.

Con il cuore gonfio di dolore, con le lacrime agli occhi, applaudimmo la squadra che ci stava scucendo lo scudetto dal petto.

La squadra che aveva giocato meglio. La squadra che aveva meritato.

Un applauso lungo, spontaneo, che colpì anche i giocatori del Milan.

Non ci fu spazio per la contestazione. Quella sarebbe arrivata dopo. In seguito agli stracci che volarono nello spogliatoio, il comunicato della squadra contro Bianchi, l’allontanamento di Garella, Giordano, Ferrario e Bagni.

Si parlò in seguito di totonero, camorra e partita venduta.

Non lo so. Non ci ho mai creduto.

Ho creduto a quello che ho visto sul campo. Una squadra stanca, impaurita, sulle corde, e un’altra che volava.

Ma ho imparato una cosa importante, quel 1 maggio 1988.

Si può perdere anche con stile.

Si può perdere anche riconoscendo il valore dell’avversario.

È l’essenza dello sport.

È la lezione che vorrei trasmettere ai miei figli.


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