Confesso una cosa: trovare le parole per raccontare il Napoli di questa stagione è un esercizio difficile. Tanta è la grandezza di questa squadra inarrestabile che limitarne l’analisi ad un aspetto o ad un protagonista significherebbe fare un torto alle altre, innumerevoli, sfaccettature di un’opera straordinaria che aspetta l’arrivo della primavera per ricevere il crisma dell’ufficialità.

Sarà un capolavoro. I dubbi non trovano terreno fertile in una squadra che settimana dopo settimana riscrive le regole non solo della sua personalissima storia, legata all’idea mitologica dell’occasione sprecata, ma anche del derelitto calcio italiano, che ha in questa idea di calcio brillante e sostenibile, il solo modello positivo e l’unica speranza di sopravvivenza.

Già. Il Napoli 2022-2023 riscrive la storia. Perché la sua cavalcata non conosce freni. Costringe gli avversari alla resa, distrugge le speranze di chi ha sperato nel piede in falla; illumina, con il suo ottimismo razionale, i campi di gioco, lasciando a bocca aperta le tifoserie d’ogni parte d’Italia, costrette alla mera testimonianza al pari delle loro compagini.

Un Napoli così debordante, che lascia aperta ogni più rosea aspettativa anche nell’Europa che conta, è figlio di un percorso. Questo deve essere chiaro.

L’anno scorso chi sosteneva l’importanza del lavoro di Spalletti veniva spesso contestato: la verità è che oggi si stanno raccogliendo frutti piantati mesi or sono. Dopo che il tecnico toscano ha avuto la possibilità di arare un terreno stressato da anni turbolenti; estirpando (non si offenda nessuno, è una metafora botanica) i rami secchi, oramai improduttivi, ed instillando nuova linfa in un progetto che d’un tratto è sembrato ringalluzzito e rinvigorito.

Spalletti ha imperniato il suo progetto su un’idea semplice, ma rivoluzionaria, specie in un ambiente troppo spesso impegnato a trovare nelle nefandezze altrui la ragione unica del proprio scoraggiamento: il messaggio spallettiano è antropocentrismo puro. L’uomo, attraverso il proprio lavoro, come artefice delle proprie sorti.

Una rivoluzione, passata in sordina. Anzi, l’altr’anno, quasi osteggiata da un ambiente che mal sopportava la portata copernicana di una simile affermazione, e che ne ha provato a fare una narrazione machiettistica.

Spalletti non è un retore, non tergiversa: le risposte, per quanto strizzino l’occhio all’esercizio di stile, hanno sempre un obiettivo preciso.

La distruzione degli alibi, a ben vedere, è stata la chiave per costruire uno spogliatoio forte, senza passati ingombranti e con la giusta corazza per impermeabilizzarsi.

Spalletti non è un condottiero canonico. È un uomo di campo, un lavoratore instancabile dal cervello fine, sempre pronto ad aggiornarsi e a mettersi in discussione. Lo ha dimostrato già l’anno scorso, quando con uno spogliatoio tutt’altro che stabile è riuscito a lottare per il titolo fino a 4 giornate dalla fine, raggiungendo in cavalleria la zona Champions.

L’uomo giusto, capace di unire la gestione della rosa di Benitez all’applicazione sarriana: tenendo tutti dentro, garantendo ad ognuno lo spazio per incidere, divertendosi.

Questo Napoli è un arcobaleno che parte da lontano. Dagli anni passati ad ingoiare bocconi amari, a leccarsi ferite e a ritenersi sempre un po’ inadeguati. Anni in cui si è continuati a crescere, anche se nella cenere di scottanti bruciature. Anni che oggi trovano un senso diverso, in una città che, finalmente sterilizzata da qualsiasi facile trasporto, sembra finalmente pronta ad abbracciare una squadra capace di sublimarsi nella dimensione metafisica della leggenda.