Chiudete gli occhi.

Immaginate un momento felice della vostra vita.

Probabilmente penserete alla nascita di un figlio, una situazione particolarmente romantica, una soddisfazione professionale, un episodio legato alla vostra infanzia, magari alla carezza di un genitore.

Restate sempre con gli occhi chiusi.

Ancora un attimo.

Adesso pensate ad un momento in cui la vostra felicità è coincisa con quella di migliaia di altre persone.

Un istante, lo stesso istante per tutti, in cui il cuore ha cominciato a battere all’impazzata, il sangue vi è salito rapidamente alla testa, la vena del collo si è ingrossata, gli occhi sono diventati lucidi, avete cominciato a saltare di gioia a tre metri da terra, increduli, confusi, spaesati.

La felicità è autentica solo se condivisa, diceva Tolstoj.

E se siete tifosi del Napoli è impossibile non pensare al minuto 89 di Juventus Napoli del 22 aprile 2018 come uno dei momenti più felici della vostra vita.

Esattamente cinque anni fa.

Era il terzo anno di Sarri. L’anno del patto scudetto. L’anno in cui tutti, ma proprio tutti, ci abbiamo creduto come non accadeva da tempo.

L’anno della partenza sprint, otto vittorie consecutive, di un girone d’andata da record, l’anno dell’uscita, quasi volontaria, dalle coppe, per concentrarci sul campionato, per accarezzare quel sogno che giornata dopo giornata diventava sempre più concreto.

Fino a primavera, quando la squadra, stanca, poco brillante, cominciò a rallentare.

Una sconfitta interna con la Roma, un pareggio a Milano con Donnarumma che fece un miracolo a tempo scaduto su Milik, un altro stop col Sassuolo. La Juve, brutta, spietata, cinica, che non mollava mai, vinceva sempre, aiutata nei momenti cruciali, che prima ci raggiunse e dopo ci superò.

Poi il gol di Diawara col Chievo, la rimonta con l’Udinese, la rovesciata di Simy, da meno 9 a meno 4 in 2 minuti, lo scontro diretto, un solo risultato possibile per accorciare ancora: la vittoria.

Ero paralizzato dall'ansia dalla mattina.

Quel week end lo passai allo Zoo Marine ma di orche, delfini e mammiferi assortiti non me ne fregava assolutamente niente.

Avevo un chiodo fisso in testa.

Me ne andavo in giro fiero con la mia maglia rossa Gioia Sarrismo e Rivoluzione (che l'anno dopo avrei bruciato) intercettando gli sguardi degli altri malati azzurri che si confondevano nella folla del parco acquatico.

Partii presto, a ora di pranzo, per evitare il traffico

Il pomeriggio lo trascorsi in uno stato di trance. Le ore non passavano mai. La tensione mi divorava.

Mia moglie mi costrinse a vederla a casa di mio padre.

"Non succede, ma se succede fai il pazzo e traumatizzi tuo figlio", aveva sentenziato, saggia.

Io le avevo detto che tanto non sarebbe successo, figurarsi, e non c'era niente di cui preoccuparsi, ma in fondo in fondo ci speravo.

Da scaramantico azzeccato con le date ricordavo che 28 anni prima, il 22 aprile 1990, di fatto avevamo vinto il secondo scudetto.

Della partita ho ricordi frammentati. Un dominio totale con pochissime occasioni da gol, una Juve che non riusciva a superare il centrocampo, la sensazione, che mi accompagna sempre, di malessere, che anche quella volta l'avrebbero sfangata.

Poi ci fu un tiro di Insigne deviato da Buffon. Il 7, Calle, prese il pallone con le mani e si avviò a battere il calcio d'angolo.

Lo so che non ci crederete, ho solo tre testimoni: mio padre e due suoi amici a farci compagnia.

Ebbi una premonizione: "Koulibaly di testa", dissi piano, per poi ripeterlo come un mantra.

"Koulibaly di testa, Koulibaly di testa, Koulibaly di testa, ti prego, ti prego, ti prego".

Non so a quale divinità mi stessi rivolgendo. Forse al dio del calcio. O forse era solo energia positiva, mazzo, coincidenza, non lo so.

So solo che un secondo dopo gli occhi non credevano al messaggio che gli inviava il cervello.

Stritolai papà nell'esultanza, gli occhi da pazzo, rosso paonazzo, a un passo dall’infarto.

In un attimo eravamo un groviglio di abbracci sul divano. Urlai così forte da lacerarmi le corde vocali. Steso sul pavimento, incredulo, in lacrime, commosso.

Felice.

Al triplice fischio finale (quei minuti di recupero furono infiniti, infiniti) scattai fuori a braccia alzate, tra i fuochi di artificio, la gente che si abbracciava per strada, col cuore che dava testate nella cassa toracica.

Il telefono era incandescente.

Mi chiamò mamma. Non seguiva il calcio ma per i grandi eventi si emozionava.

"Come stai? Sei felice?", chiese.

"Sì, troppo. Troppo", urlai.

Corsi a casa, un abbraccio a mia moglie e mio figlio, cento telefonate manco mi fossi laureato ad Oxford e poi giù, ancora di corsa, a Piazza Vanvitelli, a sfogare anni di umiliazioni e sconfitte.

Non lo vincemmo quello scudetto che avremmo meritato.

Non ce lo fecero vincere.

Ma quell’attimo di felicità assoluta non ce lo toglierà nessuno.

Quell’attimo in cui Koulibaly saltò a due metri da terra, quell’attimo in cui il tempo si è fermato, quell’attimo in cui la rete si è gonfiata, l'urlo sincronizzato di una città, quella sensazione di gioia totale, estasi, ecco, a quell'attimo, a quella sensazione, mi sono aggrappato un sacco di volte quando tutto andava di merda e sono stato male davvero.

Perché potete pensare quello che volete.

Ma non è soltanto un gioco.


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