Analogie e divergenze tra il post Sarri e il post Scudetto
C’è rimasto solo quel minimo di animus comparativo ad alimentare il dibattito intorno alla stagione dei disastri, anno domini 2023/2024.
Per quanto suggestiva e, vichianamente stimolante, bisogna sfatare un mito: ci sono due differenze grandi tra il post Sarri, ed il relativo carico di aspettative dei 91 punti, ed il post Scudetto.
La prima, evidente a tutti: la squadra di Sarri lo scudetto non lo aveva portato a casa. Inseguito, meritato sì, ma foss’anche solo per il ladrocinio perpetrato dal sistema arbitrale, non cucito sul petto. Quel gruppo, inoltre, era anagraficamente a fine ciclo. Reina, Albiol, Callejon già lambivano i 30 anni. E poco dopo lo avrebbero fatto i Mertens, i Koulibaly e gli Insigne. Quella squadra era dunque a fine corsa, sia dal punto di vista anagrafico, e ciò, per un club della dimensione del Napoli, significa avere mezzi produttivi depotenziati, anche dal punto di vista emotivo, dopo aver coltivato il malcontento della sconfitta ed essere stati marchiati a vita dal dispiacere dell’impresa svanita.
Il Napoli dello Scudetto è tutt’altra cosa. Anzitutto, come dicevamo, ha vinto. E lo ha fatto in scioltezza, senza condizionamenti esterni, giocando alla grande, con un gruppo capace di raggiungere punte di calcio celestiali e senza scontentare nessuno, anche i calciatori meno utilizzati (che infatti l’anno scorso hanno inciso anche negli scampoli di gara). Inoltre, essendo lo scudetto giunto proprio dopo una campagna di rinnovamento della rosa importante, che aveva immesso linfe nuove, il ciclo, anagrafico ed emotivo era tutto fuorché esaurito.
Poi, i calciatori del 2018 furono effettivamente oggetto di attenzioni lusinghiere da parte di molti club; il Manchester United si spinse ad offrire una cifra vicino ai 100 milioni di sterline per Koulibaly, offerte da capogiro arrivarono per Allan, Hysaj, Mertens, Hamsik. Insomma, effettivamente ADL rifiutò molte proposte e, a dirla tutta, l’idea di una continuità tra i due cicli si rivelò più errata di quanto forse preventivabile solo perché l’estate successiva non si decise di dare seguito alle esigenze di cambiamento manifestate da Ancelotti.
Quest’estate, sul tavolo di De Laurentiis saranno arrivate 2/3 offerte; quelle per Osimhen – e sul tema possiamo dibattere ore intere – che sono state l’ossessione dell’estate per un presidente che non ha fatto altro che pensare a come trattenerlo, quella per Zielinski ed ovviamente il pagamento della clausola di Kim. Poi, per il resto, forse spaventati da una tendenziale ritrosia a cedere i calciatori in vetrina, pochi si sono avvicinati. Al punto che il Napoli si è dovuto letteralmente cercare un acquirente a fine agosto per Lozano, il PSV, data l’assenza di altri club interessati.
L’assioma ‘non si è venduto come fu fatto dopo Sarri’ è dunque una ricostruzione interessante ma non pienamente calzante.
Il problema del Napoli è stato che nessuno voleva acquistarne i gioielli: perché è cambiato il mercato, perché, oltre agli arabi, nessuno mette più tanti soldi su 27/28enni con il contratto tendente alla scadenza. E perché, poi, probabilmente per lavorare anche sulle cessioni serve una rete di rapporti con agenti e club che facevano parte del bagaglio di expertise che il D.S. Giuntoli non è stato in grado di tramandare per tempo.
Certo, le analogie, come in ogni crisi che si ripresenta in una realtà come quella di Napoli, ci sono: il deterioramento dei rapporti interni, con molti giocatori scontenti e rimasti orfani della guida tecnica e umana assomiglia molto allo scoramento che il nucleo storico di calciatori sarriano ebbe dopo il primo anno con Ancelotti.
Se vogliamo, l’addio contemporaneo di Giuntoli e Spalletti, praticamente l’unica “società” che il gruppo squadra ha conosciuto nell’ultimo biennio, ha lasciato la squadra orfana di due punti di riferimento più importanti di quanto nominalmente lo fossero i loro incarichi.
E, peraltro, le modalità di addio, piuttosto turbolente, non avranno aiutato chi vedeva in Spalletti un guru, una guida, qualcosa di più di un allenatore.
Poi, anche le idee che qualche calciatore goda di speciali immunità, che possa permettersi cose che altri non possono o che qualche altro riceva prolungamenti favorevoli, pur non essendocene urgenza, solo perché c’è un tale procuratore, sono circostanze che cinque anni fa non c’erano.
Le ‘asimmetrie’ retributive sono un problema di questo momento, così come le parole sprezzanti con le quali si risponde alle domande sul rinnovo di uno dei venti calciatori più forti dello scorso anno, al contempo elogiando il procuratore della strada, concedendogli la sala stampa del Maradona ed una legittimità pubblica ad intervenire su faccende non sue.
La verità è che, pur sbagliando, nel biennio post Sarri a Napoli la società c’era. Cristiano Giuntoli ci mise la faccia, facendo cadere Ancelotti e andando a prendere Gattuso. L’esito non fu più fausto di quel che lasciò dietro, ma in due tre sessioni di mercato il Napoli fece le spalle robuste a tal punto di andare a costruire il gruppo dello Scudetto.
Oggi, invece, latita: si affida alle parole di circostanza di un D.S. improvvisato, preso perché gran signore e forse perché adulatore di Yuppies, cincischia sul mercato a fronte di cessioni già avvenute, accetta con spirito compassionevole ogni umiliazione di campo senza colpo ferire.
La vera differenza con il post Sarri è che, nonostante tutto, all’epoca si intravedevano spiragli: mentre ad oggi, qualunque previsione sul futuro che non sia divinatoria non può che confrontarsi col buio nero di un baratro che pare irreversibile.