Oltre alla tecnica sublime di Kvaratskhelia, alla forza devastante di Osimhen o alla abnegazione di capitan Di Lorenzo, a trascinare il Napoli in una stagione da record è stata una vecchia lezione che - dimenticata per anni, vittima di una balcanizzazione dell’opinione pubblica - è rispuntata nella sua attualità

Per vincere, specie in un ambiente non particolarmente avvezzo alla vittoria, serve che tutte le componenti vadano nella stessa direzione. Società, squadra, allenatore, ambiente, tifosi. Ognuno è in grado di dare un contributo decisivo.

Un concetto venuto alla ribalta proprio dopo l’Estate bollente, tellurica, quella di maggiore tensione per i tifosi del Napoli.

Quello del pre-partita contro l’Eintracht è stato uno dei momenti di maggiore serenità dell’era De Laurentiis: un presidente pacato che ha risposto alle domande intelligenti di una stampa ben predisposta, nell’attesa della conferenza stampa di un capitano tranquillo e di un allenatore scafato e acuto.

Quando Aurelio De Laurentiis è entrato in sala stampa e ha cominciato ad interloquire con la giornalista di canale 21, Titti Improta, ho capito che la sera successiva avremmo vinto. Non so perché, ma la sensazione è che questo Napoli, che ha conosciuto le asperità di percorsi tortuosi e di difficoltà endemiche, abbia assorbito tutto in una corazza di maturità che lo ha finalmente emancipato da una dimensione che, per quanto abbia toccato momenti altissimi, lo limitava ad una forma mai pienamente espressa.

La forza dei risultati, ovviamente, fa il resto: ma questo Napoli non ha personalità ingombranti, non ha argomenti spinosi, non subisce influssi negativi esterni. L’ambiente, poi, sembra aver finalmente imparato la lezione. Ha cominciato a fare testuggine, a rispedire al mittente le critiche, non prestando il fianco al gioco sporco di chi prova ad avvelenare la minestra da lontano.

Aveva ragione Benitez. Per vincere, conta un ambiente unito. Quella di quest’anno è la vera stagione dello Spalla a Spalla.

Il Napoli, che già ha dimostrato tanto, si comporta come una squadra che non ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno, fuorché a sé stesso. Una vittoria, eh sì - l’innominabile da queste parti - ha origini che partono da lontano, da anni di sapienti gestioni, intervallati da alcune stagioni di fisiologica indecisione, ma che son servite a rinvigorire la corteccia di un albero ben saldo, che hanno radicato il frutto di idee erudite, ma soprattutto oneste (semicit.)

Gioca, poi, un calcio anch’esso onesto, hemingwaiano oserei dire, ha fatto bene Spalletti a trovare la chiave per rendere il suo Napoli spettacolare ed efficace. Bello e mortifero. Un calcio orientato al gol, figlio di uno studio e non di una mera strategia, fatte di calcoli o di logiche sparagnine. Così ha contribuito ad implementare anche lo storytelling, garantendo una continuità di calcio spettacolare, oramai marchio di fabbrica napoletano al pari della pizza.

E l’ambiente ha finalmente guardato alla luna e non più al dito. Smettendo i panni belligeranti delle sciocche fazioni, della stucchevole retorica, archiviando movimenti patetici inneggianti a caselli autostradali.

Questa stagione è una vittoria per tutti, ma è anche un monito; per fare bene bisogna che tutti lavorino affinché le condizioni permangano queste. Affinché si tenga a cuore il bene più importante: la nostra maglia.

Solo così continueremo a vedere sventolare bandiere azzurre in ogni angolo del mondo e invogliare le giovani generazioni nel sostenere i colori e i meravigliosi calciatori che li difendono. A costruire la nostra assicurazione per il futuro, il patrimonio che ci garantirà di non conoscere mai più la mediocre rassegnazione di trascorse retrocessioni o l’ignominia del fallimento.