Luciano Spalletti si appresta a vincere il suo primo scudetto. A coronamento di una carriera vissuta sempre da outsider. L'eterno secondo si scrolla da dosso un'etichetta che non rende giustizia al suo percorso, fatto di obiettivi raggiunti con una continuità impressionante. Solo in un paese come l'Italia - che ha adottato il mindset juventino del vincere è l'unica cosa che conta, finendo per esserne strangolato - è stato possibile dipingere Spalletti come un perdente. Il fatto che il tecnico sia riuscito a trionfare proprio in una piazza come Napoli, poi, ha reso ancora più indigesta agli occhi dei suoi detrattori la metamorfosi.

Luciano non ha solo vinto, ma ha stravinto. Un campionato mai in discussione. Il suo Napoli è primo dalla gara di andata con lo Spezia, anche in quell'occasione decisa da Giacomo Raspadori nel finale di un match complicatissimo. Proprio Raspadori, soffiato in estate alla corte speculativa della Juventus, che rappresenta il manifesto delle idee che hanno mosso il club alla ricerca del suo calcio. Un investimento di 35 milioni per un giovane attaccante, un costo monstre se paragonato all'esborso economico contenuto che avrebbe rappresentato il rinnovo di Dries Mertens, tanto invocato dalla piazza. Ma questa è un'altra storia.

Lo scudetto di Spalletti è un destro in pieno volto ai benpensanti

Tornando a Spalletti, il mister ha accettato Napoli nel suo momento più basso, ha lottato contro il vento degli scontenti locali e contro le narrazioni che lo volevano mangia capitani. Etichette, solo etichette fastidiose. Come quelle di prima donna o di antipatico, addirittura inviso allo spogliatoio. Nomee classiche di un paesello di provincia, in cui ogni singolo abitante porta in dote un soprannome o un inciucio da quattro soldi che lo segue come una scia. Come quella che le sue squadre crollano sul più bello, insomma.

Lo scudetto di Spalletti è un destro in pieno volto ai benpensanti. A quelli che il calcio è semplice, a quelli delle categorie. Luciano, nonostante la sua età, tradita da un corpo allenato e prorompente, non ha mai smesso di aggiornarsi. Non ha mai smesso di studiare e rendere onore allo sport più bello del mondo. Mentre altri facevano raccontare ai loro amici di aver rifiutato il Real, Spalletti era immerso nello studio. Nelle pieghe della modernità del calcio, fuggendo dai luoghi comuni che chi racconta questo sport, per pigrizia e piaggeria, vende come postulati.

La sua squadra ha fatto innamorare il mondo. Un gioco sempre propositivo, sfacciato, potente, bello, bellissimo. Fatto di comportamenti corretti. A prova di bambino. Non c'è stato un solo minuto di calcio giocato dagli azzurri censurabile all'innocente vista dei più piccoli. Un calcio educativo. Sintetizzato nel gesto di Osimhen a Torino, domenica sera, che con un avversario a terra, preferisce istintivamente fermare il gioco, nonostante la rivalità e il cazzotto di Gatti a Kvaratskhelia qualche minuto prima, invece di approfittare del vantaggio.

Spalletti sarà forse ricordato come il Gianni Rodari della panchina. La didattica degli atteggiamenti giusti è stata applicata e raccontata ovunque: in campo, in panchina, in conferenza stampa. Così come lo scrittore romano fu scomunicato dalla Chiesa perché comunista, anche Luciano è stato allontanato dal credo dei potenti del calcio perché considerato un rivoluzionario pericoloso per l'ordine delle cose prestabilite.

La sensibilità è forza, mai debolezza

L'ossessiva ricerca della lealtà è stata la linea melodica della sua esperienza partenopea. Ha donato una nuova accezione alla sensibilità dei suoi ragazzi. Un termine che spesso nel calcio viene confuso con debolezza. Ha chiesto ai suoi di ricordarsi quale città rappresentassero, gli ha promesso gloria eterna, ma gli ha imposto di assumersi la responsabilità di incarnare una terra che da sempre vede amplificare i suoi difetti dalla narrazione main stream. Porgere l'altra guancia senza reagire è stato il mantra. Far parlare le emozioni sane, produrre empatia attraverso gli occhi resi lucidi dai sogni.

Finchè è arrivato secondo ha fatto comodo a tutti. Quel mezzo pazzo di Spallettone che indossa i tacchetti in panchina era buffo, innocuo. Da oggi la storia cambia. E allora fanno a gara per ricordargli di non sentirsi Rambo. Ma lui sorride e guarda avanti. Ha una buona parola per tutti. Non risponde alle provocazioni. Non esulta ai gol. Non ne ha bisogno. Per ora, è troppo preso a "mangiare il cuore" dei suoi detrattori attraverso l'arte della lealtà.