Qualche domenica fa ho approfittato del bel tempo per andare a vedere una partita di categoria inferiore. Spinto dall'amore profondo che provo per mio nipote il quale, con l’avvicinarsi della maggiore età, coltiva il sogno di diventare arbitro professionista. Sogna e ambisce di calcare i campi di tutta Europa.

Il rettangolo verde sembra investito da un sole che non concede ombre. I calciatori in campo sono ragazzi, neanche maggiorenni, ma non più bambini. Anche loro impegnati nella rincorsa spasmodica di raggiungere i propri obiettivi e accaparrarsi il proprio futuro.

Mi accomodo in quella che era la tribuna centrale insieme a una cinquantina di persone, genitori o comunque parenti degli aspiranti calciatori. La partita è equilibrata, tosta, sembra quasi di categoria superiore. Soprattutto corretta. Anzi, correttissima. Rispetto reciproco.

Ma, purtroppo, non si gioca solo in campo. Gli spalti fremevano, aspettavano solo una scintilla per esplodere. E, puntuale, la scintilla arriva.

Su risultato di parità assoluta, l'arbitro (mio nipote) non fischia un presunto rigore per un fallo sospetto dentro l'area (per me non c'era - ndr). Dagli spalti vola di tutto. Improperi di ogni genere. Rivolte a chi? All'arbitro, naturalmente.

Quella maledetta voglia di scaricare su altri le responsabilità di una giocata sbagliata del loro pargolo prediletto era ormai irrefrenabile. Li immagino a casa, seduti a tavola all'ora di pranzo, con prosecco e gamberi rossi, a inveire ancora contro quel ragazzo con la maglia nera. E a dire al proprio figlio che così si fa. Si deve cercare sempre il contatto, sempre la simulazione. Così si fa.

Da quegli spalti sono volate parole grosse da "uomini" over 40enni rivolte a un ragazzo che potrebbe essere un loro figlio. Un loro nipote. Il figlio di un loro amico. Mentre io, suo zio, mi dannavo e stavo zitto per il rispetto che nutro per lui, così perdutamente e infinitamente più in gamba di loro.

Lo sguardo affranto del papà, seduto accanto a me, rassegnato al fatto che se il figlio voglia intraprendere questa carriera, è uno dei tanti prezzi da pagare dinanzi a cotanta inezia. Così come i due nonni. Ormai stanchi più di tutti della deriva incivile che questo mondo ha sempre intrapreso (uno dei due andato via prima, non sopportava più i versi animaleschi).

Perché il calcio ormai è sulla soglia dell’implosione. Perché sarà sempre colpa del prossimo se il loro erede non sfonderà in questo settore dove ballano tanti di quei soldi da mettere a posto generazioni e generazioni. Si è perso il senso e la misura.

Tutta questa cattiveria, fatta di insulti, anatemi e scomuniche di ogni genere.

La follia.

E se la civica educazione non avrà mai sopravvento si rischia seriamente di imbatterci nel più comune - e allo stesso tempo, grezzo - proverbio del frutto che non cade mai lontano dall'albero. Ma una speranza c'è ancora. E il suo bagliore l'ho rivisto al triplice fischio. I capitani delle due squadre si sono avvicinati all'arbitro complimentandosi dell'ottimo lavoro svolto. Così come i due mister.

E anche i due osservatori arbitrali, inviati dalla FIGC, si sono dimostrati assolutamente soddisfatti dalla direzione di gara.

I figli, spesso, sono terribilmente migliori dei genitori. Non ci resta che affidarsi a loro se vogliamo che questo sport restituisca una luce diversa. Come quella che mio nipote rincorre mentre abbandona il campo, a petto in fuori, fiero del suo lavoro. Tra gli applausi di chi ha un minimo senso di civiltà e di sport.

https://youtu.be/woND88MYbDY?si=P9MWki2gLOUSmbWT
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