Victor Osimhen non esulta - per i gol non decisivi - perché è un vincente. Ma esulta per quelli dei compagni, anche sul 3 a 0, perché è un leader. C'è una disparità emozionale tra le elettriche reazioni per un'occasione persa e la composta celebrazione delle sue esultanze. Questo è il sintomo che svela la diagnosi. Il ragazzo soffre di una patologia comune a molti campioni che hanno fatto la storia dello sport: l'ambizione.

Mamba Mentality

Era il 2009, i Los Angeles Lakers vincono anche Gara 2 delle finals Nba, contro Orlando Magic. In conferenza si presenta Kobe Bryant. Viso corrucciato, impassibile. Gli chiedono un sorriso. Il giornalista incalza: "Avete un ottimo vantaggio". "Per cosa dovrei essere felice?" - chiese Kobe - "Il lavoro non è finito. Il lavoro è finito? No, non penso". Fu l'inizio della Mamba Mentality.

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Kobe Bryant: "Job's not finished"

L'insostenibile giovinezza di Victor

Essere l'attaccante del Napoli è un lavoro stressante. Non è mai solo una questione di gol. Essere accettato come attaccante del Napoli è un processo complesso che passa attraverso la lente del giudizio tecnico, fisico e comportamentale, i cui parametri vengono stabiliti da chi ti ha preceduto. Anzi, dalla somma del meglio dei tanti che ti hanno preceduto. Essere l'attaccante del Napoli vuol dire combattere contro l'idealizzazione che il popolo ha sviluppato in anni di performance incredibili che questo ruolo, da queste parti, nell'era moderna, ha sempre garantito.

Non deve essere stato facile neanche per Victor Osimhen, sbarcato alla pendici del Vesuvio appena ventunenne, ma con un bagaglio di vissuto che pochi possono vantare. L'inizio del viaggio nelle discariche di Lagos, la perdita della madre in giovane età, la solitudine nel freddo del nord Europa con un futuro incerto e il sogno di riscatto sempre in bilico, l'ansia che per quelli come lui il treno del destino non faccia fermate. Dopo la Germania, il Belgio, poi la Francia.

Essere stato il giocatore più costoso della storia del Napoli, non lo ha aiutato. Perché, in un'Italia ancora stordita da una subordinazione di stampo cattolico, il denaro è peccato, mai un valore. E anche chi racconta il calcio è legato mente e penna a questo filo. Se costi tanto, non puoi permetterti di essere un potenziale, ma ci si aspetta efficacia immediata che giustifichi la cifra. Se costi tanto, i tuoi ventuno anni valgono il doppio. Se costi tanto devi avere la classe di Higuain, la cattiveria di Cavani e il gene partenopeo di Mertens. Diversamente non sai stoppare, non segni contro le big e non sei armonico al gioco della squadra.

Il "nuovo Balotelli" sussurrò qualcuno quando, alla vigilia del rientro dal suo primo infortunio alla spalla in nazionale, beccò il covid alla sua festa di compleanno in Nigeria. Troppo irruento, battezzarono i soloni quando si fracassò il viso sulla nuca di Skriniar. Meglio Cristiano Ronaldo in pensione, urlavano in estate. Volevano sedare il suo istinto, quando in ritiro, Spalletti lo allontanò dall'allenamento per proteste dopo un fallo non fischiatogli.

Osimhen Mentality

Ma Victor è riuscito nell'impresa di non crollare, anzi. Si è stretto attorno alla sua passione e l'ha trasformata in ambizione. Ha reso i suoi punti deboli, armi letali. Ha convertito la rabbia in fame. L'esuberanza in concentrazione. La cattiveria in potenza. Ha aumentato il peso specifico delle sue giocate piuttosto che il volume. Si è fiondato sull'efficacia, anziché rincorrere la giocata. Un diavolo.

Nella mente di Victor sono scattati meccanismi complessi, prodotto delle sue esperienze di vita. Ha dovuto fare tutto da solo, perché la spensieratezza del ventenne il fato non gliel'ha mai concessa. Ha imparato che i gol non sono tutti uguali. E che, a volte, è più importante gratificare l'assist di un compagno, indicandolo o che è più determinante alzargli la testa dopo un rigore sbagliato.

Il gol più bello? Quello dello Scudetto.

Victor Osimhen

Nessun dramma, dunque. Nessun retroscena. Non c'è nulla dietro la mancata esultanza di Victor dopo il gol votato come più bello della settimana di Champions.

Chi, in questi giorni, sta tentando di decodificare il suo linguaggio del corpo, con ogni probabilità, a inizio stagione sosteneva che non fosse adeguato per gli schemi di Spalletti e magari due anni fa storceva il naso perché avrebbe preferito un usato sicuro. Saranno gli stessi che urleranno al ridimensionamento quando il nigeriano sbarcherà in Premier League. Opinioni superficiali di chi non ha la capacità di andare oltre le apparenze.

Il capocannoniere della Serie A, oggi, ha un chiodo fisso: dimostrare di essere il migliore scrivendo la storia dove solo il più grande di tutti è riuscito. E non si darà pace finché non raggiungerà il suo obiettivo. La fame non si dimentica. Una volta provata ti rimane dentro e hai sempre paura che possa ritornare proprio quando credi di avercela fatta.

Victor, ce lo fai un sorriso?

Perché dovrei? Il lavoro non è finito.