Il giorno in cui diventai grande
La notizia mi arriva sulla chat del Fantacalcio.
È morto Maradona.
Tre parole. Solo tre parole che mi gelano il sangue nelle vene, mi bloccano il respiro, mi fanno tremare le gambe.
Non è possibile. Diego ha appena superato l’ennesima crisi, l’ennesimo intervento delicato. Appena qualche giorno prima i medici hanno detto che stava bene, che era fuori pericolo.
C’è un errore. Deve esserci sicuramente un errore.
Diego è un supereroe. E i supereroi, si sa, non possono morire. Sono immortali.
Ma sì, sarà la solita fake news. Quante volte, negli ultimi anni, abbiamo letto delle sue condizioni di salute precaria, del suo stile di vita sempre al limite? E ogni volta ne è uscito, facendoci tirare un sospiro di sollievo.
Ma stavolta no. Stavolta è diverso.
Me ne accorgo dalla quantità di messaggi che mi arrivano sul cellulare, che sembra sul punto di scoppiare.
Vado sui social alla disperata ricerca di notizie.
Pare che Diego abbia avuto un attacco cardiaco. Sta male, molto male, ma non c’è ancora niente di ufficiale.
È il 25 novembre 2020. Sono circa le cinque del pomeriggio. Fuori è buio. La Campania è in zona rossa. Dopo un’estate serena, l’incubo del Covid è tornato più prepotente che mai.
Sono solo in casa con mio figlio Stefano. Ha sei anni e sta vedendo, come tutti i pomeriggi, la consueta puntata dei Me contro Te.
“Devo vedere una cosa su Sky”, gli dico prendendo il telecomando e stoppando bruscamente il video. In altre circostanze protesterebbe con veemenza, ma deve esserci qualcosa nell’espressione del mio viso che lo convince ad accettare la mia decisione senza fiatare.
“Che succede, papà?”, mi chiede.
“Forse è morto Maradona”, rispondo, pentendomene subito.
È sempre difficile affrontare l’argomento morte con i bambini. Non vorrei farlo preoccupare, ma sono travolto dalle emozioni, non mi contengo.
Capisco che è tutto vero quando vedo Gianluca Di Marzio, noto esperto di calciomercato, piangere in diretta. Suo padre, Gianni, è stato un ex allenatore del Napoli. Fu uno dei primi ad accorgersi dell’incredibile talento del Pibe de Oro. Provò a portarlo a Napoli già alla fine degli anni Settanta, quando era appena maggiorenne.
Allora è così: Diego è morto. Diego non c’è più.
Confuso e stordito metto di nuovo il video dei Me contro Te in tv e barcollo in cucina.
Ho un vuoto nel petto e un groppo alla gola.
Chiamo Alessandro, il mio amico d’infanzia, quello con cui ho condiviso le partite allo stadio, le domeniche attaccati alla radiolina, i tiri nella stanzetta nel tentativo, vano, di riprodurre le gesta del nostro idolo.
Al “pronto” non mi trattengo e scoppio in un pianto disperato. Sono dilaniato dai singhiozzi. Mi ripeto che sono un cretino, che non lo conoscevo davvero e non lo avrei mai conosciuto.
E allora perché questa tristezza?
Perché questo dolore?
Realizzo che non sto piangendo solo per il calciatore. E nemmeno per l’uomo.
Sto piangendo per un tempo, quello della spensieratezza che, adesso lo so, non tornerà mai più.
Oggi, 25 novembre 2020, sto salutando la prima sciarpa comprata fuori allo stadio, la fila per entrare nei distinti, la pasta al forno mangiata dai vicini di papà, i riti scaramantici prima delle partite, il caffè Borghetti, i lunedì a scuola a vantarmi perché io c’ero, c’ero sempre.
Perché il giorno in cui il tuo idolo non c’è più, ecco, quello è il giorno in cui diventi grande.
Davvero.