Erano i mondiali del 1986, quelli svolti in Messico dal 31 maggio al 29 giugno, quando l’Argentina, grazie a colui che ha segnato la storia e scritto il manuale del calcio sulla “Treccani”, vinse il torneo. Un campionato del mondo che portò alla consacrazione il Pibe de Oro. La “Mano de Dios”, un’immagine leggendaria che vive non solo nelle menti ma nello sguardo di tutti appassionati di calcio, un’immagine che viene tramandata da padre in figlio attraverso emozioni e racconti.

Da quel mondiale sono trascorsi 36 anni, 36 lunghissimi anni, non tanto per cronologia ma, a mio avviso, per questioni politiche-sociali, coadiuvate da fatti e interessi decisamente mutati.

Quelli che stiamo vivendo in Qatar è un lontano ricordo da quello di un tempo. Per cominciare, questo mondiale vanta di un giro di soldi e affari da record, 220 miliardi di dollari, circa 215 miliardi in Euro, indicativamente spesi per la preparazione della manifestazione sportiva. Un calcio preparato in ogni dettaglio e affogato sempre di più nel mondo del business, questa volta però anche ai danni di coloro che, per la bella figura dei “grandi ricconi”, hanno perso la vita: un’inchiesta del Guardian, quotidiano con sede a Londra, ha rivelato che i lavoratori migranti morti nei cantieri del Mondiale sono stati almeno 6500, un Guinness World Records che andrebbe trascritto negli almanacchi di cronaca.

In Qatar non si vive la stessa passione

Ma torniamo al calcio giocato.

L’Argentina degli anni ’80, col “Pibe de oro” entravano in campo Daniel Passarella, Jorge Burruchaga, Jorge Valdano, Hector Enrique, giusto per ricordarne qualcuno.

Ora, provo a clonare quei signori del calcio attraverso quelli di scena in Qatar, come  Romero, Di Maria, Gomez, Martines e Messi. Ma credetemi faccio fatica. Questioni di preferenza? Non credo. A mio avviso la prima sconfitta dell’Argentina contro l’Arabia Saudita non rappresenta un colpo di scena, così espressa da gran parte dai media in questi giorni, ma dovuta ad un cambiamento di tendenza nelle menti dei diretti protagonisti e a quello che esprimono sui terreni di gioco, ad una fame di protagonismo che ad oggi è vincolata soprattutto a questioni economiche, agli ingaggi che stabiliscono la fascia di appartenenza: un calciatore più costa, più è forte, forse corretto ma che allontana il parallelo raffronto dai calciatori di un tempo. Diego e company scendevano in campo con agonismo e passione ma per un comune obiettivo: portare i propri colori verso la vittoria, non solo per questioni di calcio, ma anche per motivi sociali.

E’ inteso e indiscusso, quelli di oggi sono tutti grandi campioni e che tutti vorrebbero in rosa, ma frutto di un adeguamento storico consolidato da un compromesso sociale.

Vorrei concludere con una frase che ad oggi piacevolmente mi tormenta. Come dice un grande filosofo: ‘un campione è colui che fa cose che gli altri non fanno… un fuoriclasse è colui che fa cose che gli altri non vedono’. Diego era uno di questi ed io non ne trovo altri, voi?