Anche il Sarrismo nacque dal dialogo
È ufficiale, il tribunale mediatico ha sentenziato che il Napoli può e deve costruire le sue fortune attraverso l’autogestione. Il verdetto condanna senza possibilità d’appello il principio del confronto, fantasioso pettegolezzo di chi vuol farci credere sia una virtù, la condizione essenziale alla base di ogni dialogo, la capacità di porsi dal punto di vista dell’altro.
Eppure basterebbe tornare indietro di qualche anno, prima che l’epopea spallettiana cancellasse ogni possibile variazione al tema tattico, vidimato quale condizione unica per un calcio piacevole e vincente. Eppure c’è stato un tempo in cui le sorti di un’intera città passavano dai piedi di tre piccoletti, in cui la fisicità era una risorsa sconosciuta e la verticalizzazione un demonio da esorcizzare con l’esasperazione del palleggio.
Nacque un movimento che ancora oggi aggrega fedeli proseliti, venne coniata la terminologia e steso un fervido trattato, quale unica strada percorribile per la conquista del palazzo. Il Sarrismo si impossessò della mente e del cuore di calciatori e tifosi, semplici appassionati e professionisti della panchina, eppure in pochi ricordano i suoi albori. Perché quel Napoli maturò dal “guardarsi negli occhi senza sfidarsi; avvicinarsi gli uni gli altri senza incutersi paura; aiutarsi scambievolmente senza compromessi; cercare il dialogo tenendo presente la differenza tra errore ed errante”.
Oggi chi si permetterebbe di credere che quei tre anni siano stati il frutto di un’autogestione nata dalla volontà della squadra di abbandonare il 4312?
Come non aprirsi all’idea che l’intelligenza non teme il confronto, ma lo anela?
Oggi l’unica condizione per ritornare a parlare di calcio è restituire dignità a un tecnico che ha avuto l’ingrato onere di non poter proporre nulla al di sotto dello straordinario. Che si faccia tutti un passo indietro, lasciandoci avvolgere dal dubbio, dalla consapevolezza che nulla si crea o si distrugge, ma che tutto si trasforma. Che il cambiamento passa anche attraverso la necessità di sperimentare per poi riaffermarsi in una nuova vecchia dimensione.