Quel filo sottile che lega Spalletti e Luis Enrique
Dei nomi che stanno circolando nelle ultime ore, quello di Luis Enrique è, a veder bene, il personaggio in maggiore continuità con Luciano Spalletti.
Quanto meno sotto il profilo della leadership e della narrazione che, in Italia e in Spagna, gli è stata costruita intorno.
Caratterialmente, Spalletti è stato dipinto come un uomo problematico; il suo arrivo a Napoli fu accompagnato dalla vulgata di guastafeste, che ne ha minato l'accoglienza iniziale, facendo resistere quel sostrato di diffidenza anche a fronte di risultati buoni già al primo anno. Le vicende extra calcistiche che hanno riguardato il tecnico neo- campione d'Italia hanno inciso, riuscendo a scalfire la sua immagine pubblica; per il calcio italiano, o meglio per la gran parte dei media mainstream, Spalletti era relegato ad un ruolo minoritario, il Totticida, l'avvelenatore di ambienti. E, sinistramente, con l'aura di perdente di successo, fatalmente privo di quel tocco magico che segna le vittorie ed i propri condottieri.
Spalletti ha dovuto convivere con la diffidenza del mondo circostante, ed il suo carattere, che di spigolosità è sagomato, non ha aiutato. A Napoli, in una condizione che lo ha visto, sul piano sportivo, primeggiare per larga parte dei suoi due anni, ha tenuto dentro sè il malcontento per un trattamento a suo dire irriguardoso, sfogandosi, on e off the records, con l'ambiente che non lo ha mai tutelato, solo ad obiettivo raggiunto.
Luis Enrique è, sotto certi aspetti, lo Spalletti di Spagna. A dispetto di un palmares che lo ha portato a vincere tutto, ha sempre dovuto convivere con le aspettative di eredità importanti; il suo carattere poco malleabile ha fatto il resto, facendogli guadagnare le attenzioni più per un rapporto problematico con spogliatoi e media, che per i risultati raggiunti, tra i quali una Champions League nella finale contro la miglior Juve del decennio.
Con Spalletti, il tecnico spagnolo condivide altre due cose: la prima, l'esperienza a Roma, conclusasi nella burrasca di un ambiente all'epoca restio al cambiamento.
La seconda, che va oltre la mera coincidenza, è la predilezione per spogliatoi omogenei, senza personalità ingombranti, senza prime donne: o almeno, è quello che abbiamo potuto desumere dalla travagliata esperienza alla guida delle Furie Rosse.
Luis Enrique ha costruito un gruppo giovane, senza leader, decapitandone i punti di riferimento storici; lo ha fatto nel solco di un cambiamento generazionale, affidandosi ai baby fenomeni delle cantere, e tenendo fuori gente del calibro di Sergio Ramos , De Gea e Thiago dalle convocazioni per il mondiale e causando strali di accuse per il presunto anti-madridisimo alla base di alcune scelte, anche di formazione.
Queste scelte, oggettivamente forti, hanno fatto crescere la sensazione che l'obiettivo di Luis Enrique fosse quello di diventare egli stesso il protagonista, la primadonna intorno al quale la Spagna si sarebbe dovuta costruire; la decapitazione dei big storici della Roja è stata raccontata come manovra volta all'affemazione del suo ego che, finalmente, dopo l'esperienza blaugrana, la sudditanza raccontata nei confronti dei suoi fuoriclasse e l'eredità scomoda di Guardiola era stata tarpata.
Sembra, insomma, di rileggere le parole che hanno accompagnato Spalletti, tacciato di divorare capitani e uomini spogliatoio.
Va da sè ricordare come Sergio Ramos sia rimasto fuori per aver giocato pochissimo per via dell'infortunio, che Unai Simon era ritenuta la prima porta e che Thiago Alcantara era ai margini del suo club per minutaggio, a differenza degli altri centrocampisti convocati e lanciati (Pedri e Gavi, su tutti); così come pochi ricordano che fu Totti a non accettare un ruolo confacente alla sua età anagrafica e la società ad imporre una marginalizzazione in funzione di un addio paventato. E ancora su Icardi, che la proprietà assente lo costrinse a prendere provvedimenti in seguito a problematiche relazionali e ad un rinnovo non raggiunto.
Luis Enrique e Spalletti condividono infine l'idea di calcio, quantomeno nei principi fondamentali: il dominio territoriale come arma per esaltare le qualità tecniche. Il sistema di gioco di riferimento del tecnico asturiano è il caratteristico 433, che ha declinato sia con tridenti atipici, sia con centravanti puri. Luis Enrique è un teorico della riconquista alta, anche se, ai tempi del Barcellona vincitore di tutto, nell'alveo della iglesia guardiolista era raccontato come un eretico, per via di un baricentro di circa 15 metri più basso del suo predecessore più illustre.
Un po' come Spalletti, che ai tempi di quell''Inter povera di qualità offensive ed invece ricca di forza fisica e capacità di ripartenze, fu insignito del titolo di ministro della Difesa da Maurizio Sarri, dopo una prestazione al San Paolo in cui i nerazzurri fermarono l'allora capolista.
Vedremo se Luis Enrique siederà effettivamente sulla panchina che oggi occupa Spalletti. In tal caso, una simile scelta sarebbe in piena continuità: tecnica e di leadership.