Mario Rui e Diego Demme: vanto e gloria di questa città
“Oh Tommà posso già venire da te per l'asta? Ma come ti ho svegliato io? Dai, muoviti c******!”
Nella vita di un adolescente, ci sono pochi momenti peggiori della prima settimana di settembre.
Come... la prima settimana di settembre.
Sgraffignare gli ultimi frammenti d'estate dal baule dei ricordi che attende solo la chiusura, intavolare immensi discorsi su buoni propositi che fanno finta di esistere ed evitare discorsi altrettanto immensi sui propositi reali che vigono fissi nella mente.
Che porcile (cit.)
Continuavamo ad inebriarci dell'aroma d'un'estate ormai andata solo per cogliere gli ultimi frutti di quella felicità eterea che s'era ormai portato via il Sole al tramonto del 31 d'agosto. Inermi, come me che dalla tazza scorrevo con tutta la flemma del mondo ciò che i vari social mi proponevano. "Mi mancherà", penso sbuffando e mi ritrovo di colpo alle 7:20 del mattino con lo spazzolino in una mano e la colazione nell'altra, repentina vittima d'una routine che annichilisce autonomia e spazi. Tra neanche una settimana, sarà così. Ma adesso no e concedetemi di silenziare le 1600 chiamate ricevute dai miei amici che attendevano mie notizie per l'asta del fantacalcio.
Proprio mentre sono intento ad uscire dal bagno, leggo con la coda dell'occhio:
“Mario Rui è un puffo! Andrà a fare il pensionato come Demme”
Sospiro
Sarà una lunga asta.
Mario Rui
Sono sempre stato dell'idea che le storie vengano definite dal destino e dal tempo.
In quel posto, in quel momento.
Merito e autodeterminazione sono fattori secondari d'una narrazione plastica che appartiene solo ad una parte del mondo.
Se cercate una fetta tutta occidentale e consumistica di frasi fatte sulla padronanza del destino, vi prego, girate pagina. Potrebbe deludervi.
Qui si parla d'un ragazzo che a venticinque anni aveva preso il treno della vita, firmando per la Roma e contestualmente sembrava esserci cascato con tutti i bagagli, poiché dopo neanche 20 giorni il ginocchio fa crack in allenamento e la diagnosi è impietosa: lesione del legamento crociato anteriore. Malino se sei un terzino che pizzica il metro e settanta e devi colmare i centimetri con l'esplosività. Ancora peggio se davanti hai un ragazzo, Emerson Palmieri, che stupisce tutti e non sembra volerti lasciare alcuna speranza di giocare al tuo ritorno.
Alla fine Mario Rui colleziona nove presenze e viene riscattato, salvo poi esser messo sul mercato. Spunta Maurizio Sarri, suo vecchio mister all'Empoli: "Lo prendiamo noi". Un tranquillo posto da gregario in una squadra con grandi ambizioni.
E chi se lo aspettava?
Lui ha già vinto la sua sfida personale, ma sa che il campo lo vedrà poco. O perlomeno lo pensa, finché un altro crociato, questa volta quello del buon Ghoulam, non resta in eterno impiantato in una zolla di quello che fu il San Paolo, data primo novembre 2017.
In un calcio di spilungoni, un terzino tarchiato e dall'aria indomita non poteva sostituire quello che era il miglior terzino al mondo nel momento del suo infortunio. Toccherà arrangiarsi, poi a gennaio si vedrà come fare: intanto gioca il portoghese.
Spoiler: dal campo non ci è uscito più.
Nell'anno dei 91 punti, c'è. C'è con Ancelotti, durante l'ammutinamento, quando in una scena surreale suona la carica e si trova abbandonato dai suoi compagni.
C'è con Gattuso, quando trova il tempo di mandare in visibilio il pubblico andando faccia a faccia con uno spocchioso Arturo Vidal in un 1-1 casalingo contro il Barcellona. I tifosi trovano in lui una sorta di spirito guida, perché è tremendamente vero, tremendamente umano. Difficile prescindere dal suo tasso tecnico, inusuale per un terzino.
Lo capirà anche Spalletti che cucirà anche per lui un ruolo da Supereroe nell'anno dello Scudetto: i suoi insidiosi cross scrivono la storia della casacca che ha sempre indossato con grinta. Sulla testa di Simeone a Milano, sulla corsa di Osimhen a Genova nel momento più complicato della stagione e in altre cinque occasioni, son cascati palloni partiti dall'arciere portoghese. Scoccati dal mancino del maestro, come lo chiamiamo affettuosamente. O del professore, come lo chiamava proprio mister Spalletti: questi ci sembrano soprannomi ben più adatti di "puffo", per un uomo che spintosi oltre i suoi limiti ha difeso valorosamente la maglia azzurra in 227 occasioni. E che ha tutto il diritto di scegliersi il suo futuro.
Diego Demme
13 anni ancora da compiere in un mondo che stava avvicinandosi ad una delle situazioni più paradossali della storia recente, senza contatto, senza visione delle labbra da cui avremmo ascoltato magari le parole più dolci o magari quelle più avare d'emozioni. Un mondo deumanizzato che paradossalmente ritrovò la sua umanità nella speranza più arcaica, quella che ci accomuna al resto degli animali: la sopravvivenza. La possibilità di riabbracciare un caro, o semplicemente di abbracciarlo senza sentirsi un assassino.
Gennaio 2020
A gennaio, però, l'unica cosa che pareva turbarmi ben oltre ogni ragionevole aspettativa, era la posizione in classifica del Napoli, che strizzava l'occhio alla zona retrocessione. Intanto, in Germania i Tori Rossi parevano sul serio avere le ali e portavano alla ribalta mediatica un dibattito sulle multinazionali. La bevanda, a quanto pare, funzionava. In mezzo al campo, quella squadra che pareva tener testa al Bayern, girava con una certa dimestichezza. Tutto passava da un cervellotico mediano, buona gamba e interdizione da mastino. Il papà l'ha chiamato Diego e se l'è portato in Germania, perché in provincia di Crotone non ci vede futuro. L'ha chiamato Diego e sa già che Diego sarà la sua magia personale, il tocco di colore nel grigio della Vestfalia in cui ha deciso di trasferirsi per donargli una vita migliore. E la Mano de Dios lo illumina davvero.
Motivo per cui, quando il cellulare squilla e dall'altra parte si rivela esserci Cristiano Giuntoli, Demme non ci pensa due volte e corre in soccorso della squadra del cuore di suo padre. Rinuncia ad una fascia da capitano, a un posto da primo in classifica da difendere e a una Champions ancora da giocare. Ma a quante cose aveva rinunciato suo padre per lui? Ora era il momento di realizzare il suo sogno.
Arriva e la scossa l'assesta come si deve, tra un gol alla Sampdoria e la Coppa Italia conquistata da protagonista a fine stagione. Si conquista il suo spazio anche nel corso della stagione 2021-2022, Spalletti non disdegna il suo utilizzo nelle rotazioni. Un infortunio nel precampionato lo esclude dai meccanismi d'una macchina pressoché perfetta e intoccabile e la sua attitudine da mediano più che da architetto riducono il suo rendimento all'osso. La sua firma sullo Scudetto, però, è più che valida. E il giorno della festa, Napoli-Fiorentina, il mister gli concede 45 minuti di meritata gloria, schierandolo titolare. Una sorta di gratificazione meritata per un uomo che ha sempre risposto presente, senza mai fare titoloni né casi mediatici del suo scarso impiego.
L'ultimo squillo in maglia azzurra alla sua ultima presenza, prima di venire beceramente tagliato fuori da una rosa che ne necessitava l'impiego, rappresenta interamente l'Uomo di cui stiamo parlando.
Napoli-Salernitana 1-1, situazione da palla inattiva, palla che s'impenna alla disperata. Gli azzurri rischiano di gettare gli ennesimi tre punti di una stagione maledetta.
La sfera è sulla testa di Ikwuemesi, gigante d'un metro e novantacinque che dovrebbe solo liberare. Demme, con veemenza, dall'alto del suo metro e settanta vince il contrasto aereo e serve Rrahmani. È due a uno per il Napoli.
"Sono fiero che le mie figlie portino sui documenti che sono nate in questa meravigliosa città".
Un ragazzo del genere non può e non deve essere additato come pensionato. Perlomeno non da chi dovrebbe fare informazione.
Perché poi dimostriamo di meritarci quelli un po' più dotati, ma che tolgono i post sui social e lasciano parole al veleno non appena la storia sembra arrivata al capolinea.
Lunga vita ai Mario Rui e ai Diego Demme, capaci di arrivare con sudore e tenacia laddove altri arrivano “solo” con il talento. Vanto e gloria di Partenope, parte della sua storia indelebile.