Per capire la portata della stagione che sta compiendo il Napoli, trionfatore in solitaria di uno Scudetto che ha cominciato a cucirsi in petto alle porte dell'inverno scorso, e che aspetta giusto il conforto primaverile della matematica, possiamo operare un paradosso: prima ancora dei numeri, dei punti, delle vittorie, della mole impressionante di realizzazioni, dei clean-sheet e quant’altro: c'è la meraviglia.

L'attitudine, cioè, in alcuni momenti, di trascinare lo spettatore fuori dal campo di gioco; di elevarlo in una trascendenza che preesiste alla partita in sé, al precipitato sportivo, al risultato di campo, dilatandosi in una parentesi quasi alienante entro cui un pallone si muove velocemente in un turbinio di gambe, dominato dalla tecnica ed appagato esso stesso da tale signoria.

Un'illusione che si interrompe spesso con quel pallone che entra nella rete. Facendo tornare lo spettatore in una dimensione di realtà, dove contano per l'appunto i gol fatti, il risultato ed i punti da portare a casa.

Ecco, se c'è una magia di cui questo Napoli è capace sta proprio in questo: nella sua capacità di astrarre sé e chi lo guarda in momenti di sospensione, dove sembra allontanarsi dalla dimensione di carne ed ossa e vestire i panni dell'intuizione, dell'idea, dell'arte.

Le partite di questo Napoli non durano 90 minuti più recupero: il gioco espresso è capace di curvare la percezione temporale, sublimandosi in frazioni in cui tutto quello per cui si lotta, risultati e titoli, sembrano orpelli inutili, trascurabili di fronte alla bellezza di un colpo di tacco orientato, di un salto di 2.40 mt., di una finta, di un movimento senza palla, di un tackle difensivo.

Questa squadra è stata in grado di demolire il dibattito sulla dicotomia tra Bellezza e Vittorie, costruendo un modello dove l'uno e l'altro sono direttamente proporzionali, termini complementari e non artificiosamente antitetici.

Si è già detto di come questa squadra sia figlia del razionalismo etico di Spalletti, un allenatore esperto, dogmatico solo nel metodo, per l'appunto l'etica del lavoro; il risultato di un tale approccio è l'orizzonte a cui tende: il dominio tecnico e tattico, a sua volta il mezzo per raggiungere l'obiettivo sportivo.

E dunque, mentre veleggia a gonfie vele verso un titolo, questa squadra si è concessa il lusso di riscrivere il concetto di bel calcio, offrendone una summa che non trascura alcuna delle mille sfaccettature. La potenza felina di Osimhen si sposa alla perfezione con la coreutica di Kvaratskhelia; la sfuggente fugacità della farfalla Zielinski con la laboriosa meticolosità di Lobotka. E ancora, l'eleganza dei gesti essenziali di Meret, la caffeina Mario Rui ed il nirvana Anguissa.

Questo Napoli è un'antologia della bellezza. Nonostante non abbia vissuto con l'assillo del sublime, è la cosa più vicina alla perfezione calcistica che sia mai stata creata da queste parti (per tenerci bassi).

Celebrata in maniera imbarazzante dai commentatori sportivi di tutto il mondo, questa squadra, plagiata nell'argilla di risorse scarseggianti, è un'esperienza religiosa, mistica, alchemica.

Goderne appieno significa continuare a tralasciare la finitezza del contesto dentro cui si trova: scorporarla dal presente storico, fruirne in maniera assoluta, comprendendone la dimensione più intima. Affermare, cioè, che la danza in up-tempo di Kvaratskhelia contro l'Atalanta è dominio dell'uomo sull'entropia.

Lo sforzo di Osimhen nelle segnature contro Roma (andata e ritorno) e Eintracht è l'artificio per addomesticare spazio e tempo. Così come le materializzazioni improvvise di Min Jae Kim, che d'un tratto sbuca col gambone quando avresti giurato fosse dieci metri più in là.

David Foster Wallace, nel pamphlet che ha ispirato questo pezzo, ha così descritto il tennis di Roger Federer:

La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno di quei rari atleti preternaturali che sembrano essere esenti, almeno in parte, da certe leggi fisiche. Validi equivalenti sono Michael Jordan, che non solo saltava a un'altezza sovraumana ma restava a mezz'aria un paio di istanti in più di quelli consentiti dalla gravità, e Muhammad Ali, che sapeva davvero «aleggiare» sul ring e sferrare due o tre jam nel tempo richiesto da uno solo. Dal 1960 in qua ci saranno altri cinque o sei esempi. E Federer rientra nel novero: nel novero di quelli che si potrebbero definire geni, mutanti o avatar. Non è mai in affanno né sbilanciato. La palla che gli va incontro rimane a mezz'aria, per lui, una frazione di secondo più del dovuto. I suoi movimenti sono flessuosi più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Gretzky, pare allo stesso tempo più e meno concreto dei suoi avversari. Specie nel completo tutto bianco che Wimbledon ancora si diverte impunemente a imporre, sembra quello che (secondo me) potrebbe benissimo essere: una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce.

L’egregio Wallace ci parla di atleti unti da un 'dono'. E ne descrive le caratteristiche metafisiche, presistenti. Ora, è ovvio che non vi sia nessuno in grado di affermare senza timore di essere smentito che nel Napoli leggendario di quest'anno vi siano sportivi del livello dei citati: magari, e ce lo auguriamo, potremmo essere smentiti, ma ad oggi affermarlo farebbe scivolare l'indice di gradimento di questo pezzo sotto il livello della boutade.

Lo spunto è, però, alquanto interessante, perché il calcio è uno sport di squadra e le sensazioni che il Napoli di quest'anno ci sta facendo provare si avvicinano, per spettro ed armonia, a quelle descritte nelle pagine qui sopra.

Se, dunque, di Federer, di Jordan, di Maradona non ne nascono che a manciate, così, di squadre sì ben allenate, amalgamate e riuscite non se ne trovano tante.

Ed è per questo, insieme con i risultati, che ricorderemo questa squadra. Per averci ricordato che con il lavoro si possono raggiungere livelli che, in natura, sono appannaggio, di regola, solamente dell'innato.