Da quando, diversi anni fa, per esigenze lavorative mi sono dovuto trasferire, non passa giorno senza immaginare almeno una volta di essere a Napoli. Semplici ricordi o situazioni di vita comune che tornano continuamente alla mente, piccoli flash di vita passata che mi attraversano come una malinconica scossa, come quando la mattina al bar il caffè è una ciofeca o la domenica la casa non è invasa dal profumo della genovese.

Ma è nella settimana che precede le sfide con la Juve che questo stato emotivo cresce in maniera esponenziale, alimentato da un’ansia che monta ora dopo ora. Cammino per le strade di Bologna manco fossi un leone in gabbia, con la speranza di riconoscere nello sguardo altrui i miei stessi sentimenti, quel mix di paura ed eccitazione che, nella migliore delle ipotesi, si esaurisce solo al triplice fischio finale.

Ecco, Napoli mi manca, ma quando c’è Napoli – Juventus di più. Per questo evento ho bisogno di adrenalina, di avvertire l’aria elettrica che precede il temporale, di avvertire il calore della mia terra. E quindi mi sono sempre chiesto: “Ma come fanno gli juventini napoletani?”.

Sin da piccolo non ho mai avuto feeling con loro, anzi ad esser sinceri li ho sempre voluti evitare. Il più delle volte non lo facevo nemmeno coscientemente, ma capitava di non aver simpatia per una persona e scoprire solo dopo che era un tifoso della vecchia signora. Una sorta di istinto selettivo che indirizzava i miei rapporti sociali, impedendomi, così, di risultare contaminato dal virus bianconero.

Tolstoj ha scritto che “la felicità è autentica solo se condivisa” e quindi ho sempre pensato a quanto fosse triste la loro vita. Calcistica s’intende. Fatta di vittorie, certo, ma festeggiate nella solitudine delle proprie stanzette, con urla di gioia trattenute, senza poter essere travolti dalle emozioni collettive. Una situazione che mi riporta ad una scena del film dell’indimenticato Luciano De Crescenzo, fulgido esempio di napoletanità: Così parlò Bellavista. Quando il professore si confronta con il camorrista - l’indimenticabile Nunzio Gallo - e lo interroga fino a chiedersi quanto gli convenga fare questa vita.

Perché sarà anche calcio ma tifare per i colori azzurri non è semplicemente sostenere un club, ma un popolo, un ideale che si contrappone al potentato sabaudo che ci privò - illo tempore - del nostro Regno e indipendenza. Ed è quindi strano che un napoletano, un uomo d’amore, possa condividere la sua essenza con i colori bianconeri per l’avida lussuria di qualche trofeo. Un piacere effimero, di chi proietta nell’arroganza sportiva bianconera il proprio io per elevarne la condizione.

Un giorno, a Siviglia esposero uno striscione con scritto “ti amo anche se vinci”, il rifiuto della ricompensa per dar forza al legame affettivo, la consapevolezza di ricevere dando amore. Perché il vero tifoso è così, ti ama in cambio di nulla.

Ma tutto sommato, nun’è che fate ‘na vita ‘e merda?

Luciano De Crescenzo alias Professor Bellavista

De Crescenzo ha racchiuso tutto in un semplice interrogativo. Si, avrete anche vinto qualche scudetto, però:

- siete travolti dagli scandali

- gonfiate il petto in Italia per ridimensionarvi puntualmente fuori dai confini

- condanna per assunzione di farmaci illeciti con reato caduto in prescrizione

- retrocessi per Calciopoli

- scudetti revocati e illegittimamente esposti

- biglietti regalati ad esponenti malavitosi della curva

- caso Suarez prima e l’inchiesta Prisma che rimbomba tutt’oggi.

Ma vi siete fatti bene i conti, vi conviene?