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Alzi la mano chi non era gasato quando ci fu l’annuncio ufficiale dell’arrivo di Ancelotti a Napoli.

Per me ebbe lo stesso effetto di un elettroshock. Dopo quell’Inter Juve del 29 aprile 2018, lo scudetto perso in albergo, i 91 punti senza gloria e l’addio di Sarri, andavo dicendo in giro che basta, non ne potevo più, era arrivato il momento di darci un taglio. Quel calcio era malato, sporco, marcio. E io, che al dio pallone e alla maglia azzurra avevo dedicato una significativa fetta della mia vita, mi sentivo tradito e preso in giro.

Con un barlume di razionalità che non mi appartiene quando si parla di una sfera che rotola, giurai che dovevo allontanarmi da quel mondo che faceva uscire fuori il peggio di me.

Durò pochissimo.

Il tempo di vedere sui social la foto di Ancelotti e De Laurentiis spalla contro spalla con le dita a forma di pistola. Non ci potevo credere. Carlo Ancelotti, uno degli allenatori più titolati al mondo, vincitore di 3 Champions League (all’epoca, poi sarebbero diventate 4), il tecnico che aveva vinto i 5 più importanti campionati europei, lui, l’uomo carismatico a cui bastava alzare un sopracciglio per essere seguito ad occhi chiusi, proprio lui sulla panchina della mia squadra.

Un sogno.

Abbandonai ogni proposito di rottura (ma come mi era saltato in testa? dovevo essere impazzito) e mi fomentai come non mi succedeva da tempo. La prima parte di stagione sembrò dare ragione alle mie illusioni. In campionato ci ritrovammo in scia della Juve di CR7, e in Champions giocammo partitoni memorabili fino alla dolorosa eliminazione per mano di quel Liverpool che poi la coppa dalle grandi orecchie l’avrebbe alzata al cielo, quell’anno. Il declino cominciò da gennaio in poi. Uscimmo malamente in Coppa Italia dal Milan di Gattuso, in Europa League perdemmo nettamente con l’Arsenal, e in campionato non demmo mai l’impressione di poter infastidire la Juve. Finimmo secondi. Un buon risultato, se si tiene conto della storia azzurra. Un pessimo risultato, se si tiene conto delle aspettative.

Sono sempre quelle che ti fottono.

A quel punto erano in molti a nutrire perplessità su Ancelotti. Non io. Ero convinto che un tecnico con quel palmares non poteva essere messo in discussione. Che in fondo aveva ereditato la squadra di Sarri ma adesso, indicando personalmente i rinforzi adeguati, avremmo ridotto il gap con la Juve e ci saremmo tolti finalmente qualche bella soddisfazione.

L’estate del 2019 fu rovente. E non solo per il clima. Acquistammo il nostro futuro capitano, quel Di Lorenzo accolto dal solito scetticismo (“un giocatore dell’Empoli? Che scuorno!”), Manolas, che si sarebbe rivelato un flop pazzesco, e il Chucky Lozano. Ma il tormentone dell’estate fu James Rodriguez. Il colombiano, pupillo di Ancelotti e richiesto espressamente per dare quel tocco di imprevedibilità al gioco, malgrado gli avvistamenti e i treni per Yuma, non arrivò mai dalle parti del Vesuvio. Negli ultimi giorni di calciomercato si parlò insistentemente di Icardi, ma il marito di Wanda Nara alla fine andò a fare panchina al Psg. Ci ritrovammo con l’ex scolorato Llorente. Ero un po’ deluso. Ma Ancelotti continuava ad affermare che la nostra era una squadra da scudetto. E chi ero io per contraddire uno dei tecnici più vincenti della storia del calcio?

Partimmo bene. Una vittoria al cardiopalma a Firenze, una notte da leoni in Champions col Liverpool. Poi arrivarono le prime crepe. Una sconfitta casalinga interna nel turno infrasettimanale con il Cagliari. Due pareggi incolori con Torino e Spal.

Si arrivò alla sfida con l’Atalanta in un clima da ultima spiaggia. Che poi, a pensarci adesso, non stavamo messi neanche malissimo. Appena una settimana prima c’era stato il 3 a 2 a Salisburgo, l’abbraccio tra Insigne e Ancelotti, il gruppo che sembrava unito e compatto come non mai. Il distacco dalle prime poteva essere ancora colmato.

Era il 30 ottobre 2019. Compleanno di Maradona. Una data che per me ha lo stesso valore del Natale.

La vidi a casa di mio padre. Non so perché, ma ero più teso del solito. Avevo i serpenti nello stomaco.  Come se avvertissi un presentimento di sventura imminente non sorretto da qualsiasi logica razionale.

Fu uno dei migliori primi tempi della gestione Ancelotti. Mettemmo alle corde l’Atalanta, dominando in lungo e il largo. Quell’Atalanta, di Ilicic, Papu Gomez e Zapatone, incensata da tutti per il gioco spumeggiante, sembrava un pugile alle corde sul punto di crollare al tappeto. Segnammo con Maksimovic, fummo ripresi da Freuler, ma nel secondo tempo tornammo in vantaggio con Milik che scattò sul filo del fuorigioco, ricevette un passaggio illuminante di Fabian Ruiz, dribblò Gollini e ci portò in vantaggio.

Sembrava fatta. La partita era in controllo totale.

Fino al minuto 86.

Il minuto che cambiò la storia del Napoli di quella stagione e di quelle a venire.

Lo sliding door della storia recente azzurra.

Ricordate?

Cross dalla sinistra, Llorente prende posizione, Kjaer lo affossa. Rigore nettissimo. L’arbitro Giacomelli lascia giocare. Napoli che si ferma, protesta, chiede l’intervento del Var, si distrae. Ilicic segna il 2 a 2.

Urlai come un pazzo furibondo, prendendo a pugni il divano, maledicendo me stesso per esserci cascato di nuovo, per non aver avuto la forza di allontanarmi da quella cosa che mi lacerava il fegato e mi toglieva il sonno la notte.

Da quel minuto 86 di quel Napoli Atalanta del 30 ottobre 2019 cominciò la slavina.

Una discesa inesorabile, il momento in cui viene poggiata una pallina su un piano inclinato e comincia a scendere. Prima lentamente. Poi veloce, veloce, sempre più veloce. Impossibile da fermare.

Ricordate?

Ancelotti, espulso per proteste, viene squalificato. Tre giorni dopo, senza il suo allenatore in panchina, demotivati e ancora in confusione, gli azzurri perdono contro la Roma.

De Laurentiis annuncia che si va in ritiro. Ancelotti accetta ma non è d’accordo. Si aprono le prime crepe.

Il pareggio interno col Salisburgo, risultato neanche da buttare via, poi il patatrac.

Nello spogliatoio volano gli stracci. La squadra diserta il ritiro. Ancelotti va da solo a Castelvolturno. Sky, in diretta, annuncia che la squadra è ammutinata. Nessuno che smentisce, nessuno che prende in mano la situazione. I titoloni dei giornali il giorno dopo che sparano a zero.

Giù.

L’allenamento a porte aperte, gli insulti, la contestazione. Il pareggio casalingo col Genoa. Ancora fischi, ancora contestazione.

Giù. Sempre più giù.

Il disastro col Bologna, il primo tempo orribile di Udine, il video in cui i giocatori si fermano, ma che fanno, giocano contro?

Sempre più giù. La pallina ormai non si ferma più.

Genk, l’esonero di Ancelotti, l’arrivo di Gattuso.

La Coppa Italia, è vero, ma anche due anni di alti e bassi e delusioni cocenti.

Tutto è partito dal minuto 86 di quel Napoli Atalanta.

Quella stessa Atalanta che arriva al Maradona tre anni e mezzo dopo.

E che si trova di fronte un’altra squadra: più forte, più matura, più consapevole, sempre più vicina a quel sogno che inseguiamo da 33 anni.

Un altro Napoli. Un altro allenatore.

Un altro ostacolo da superare.

Gli stessi serpenti nello stomaco.


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